Manlio Sgalambro. Un viaggio oltre il luogo comune

La vocazione filosofica

Invito al Viaggio è il titolo una poesia di Charles Baudelaire (I Fiori del male, 1857), tradotta da Manlio Sgalambro (Lentini, 9 dicembre 1924 - Catania, 6 marzo 2014) e musicata da Franco Battiato. Invitare qualcuno al viaggio, dice Battiato, è invitarlo ad abbandonare i propri luoghi comuni, una rinuncia indispensabile per intraprendere il percorso della riflessione filosofica.
In questa puntata di GAP, realizzata da Francesco Iannello, il filosofo e poeta siclilano racconta le origini della sua vocazione filosofica, rivendicando la distanza della propria filosofia da quella accademica, che ha ormai ridotto il filosofo ad un impiegato del pensiero e dalle filosofie pratiche contemporanee.
Sgalambro recupera da Julien Benda il concetto di chierico per ristabilirlo nella filosofia operativa, parla dell’Etica di Spinoza, come di un’opera pericolosa, che egli ha tenuto accanto per tutta la vita come un testo sacro, definisce il Saggio, l’Essais un genere che, con Montaigne, apre la modernità, un assaggio, contrapposto al trattato, alla sistematicità.

Ho ricevuto il concetto di chierico dal Tradimento dei chierici di Benda e ho creduto di ristabilirlo nella filosofia operativa, come la figura che incarna la purezza della filosofia, disattesa dalle filosofie dedite a trattare delle cose concrete, che si liberavano del concetto stesso di filosofia. Il chierico è l’individuo che si sforza di pensare con la propria individualità per esprimere universalità, disarmando l’individualità nei suoi aspetti più peccaminosi, dal punto di vista dello spirito, per mettersi  la chierica del filosofo. 


Sgalambro critica le trame sempre più inconsistenti dei romanzi contemporanei e definisce la filosofia il romanzo dei ricchi di spirito, arrivando a mettere in discussione il concetto stesso  di cultura, che giudica un concetto negativo:

 

Quello di cultura è un concetto rimediato, coniato dopo quello che Spengler chiama il declino dell’occidente, Hegel lo chiamava spirito, noi cultura, ma io non credo nella cultura e non posso nemmeno credere nello spirito hegeliano, ma in una terza cosa che dovrà venire


Infine Sgalambro parla di politica, un argomento che, dice, lo appassiona sempre meno, analizzando in maniera lucidissima alcuni passaggi della storia politica dell'ultimo secolo ed evidenziando le contraddizioni insite nel concetto stesso di democrazia. 

Manlio Sgalambro (Lentini, Catania 1924 - Catania, 2014). Intellettuale tra i più originali e indipendenti del panorama culturale italiano, fuori dei quadri accademici e libero dai condizionamenti del pensiero dominante. Dopo la pubblicazione, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, di brevi articoli su riviste di nicchia quali “Prisma”, “Incidenza” e “Tempo Presente”, esordisce tardivamente nella scrittura filosofica con il libro La morte del sole (1982) in cui sistematizza la sua precedente e copiosa produzione, dando voce a un nichilismo estremo – seppure non scevro di sfumature metafisiche – che lo avvicina a pensatori quali Nietzsche, Cioran e Karl Kraus. La sua visione esistenziale, fatalista e quasi paradossale nella sua drasticità, e comunque sempre ancorata a una Sicilia che sembra sostanziarne il pensiero nel suo orizzonte di disperazione, si articola nei numerosi altri libri pubblicati negli anni successivi, tra i quali ricordiamo: Trattato dell’empietà (1987), Anatol (1990), Del pensare breve (1991), Dell’indifferenza in materia di società (1994), La consolazione (1995), Trattato dell’età (1999), De mundo pessimo (2004), La conoscenza del peggio (2007), Del delitto (2009), Della misantropia (2012), Variazioni e capricci morali (2013). L’ultimo è Dal ciclo della vita, pubblicato postumo nel giugno 2014.