La fotografia di "Vogue" e "Vanity Fair"
Sette decenni di scatti dall'archivio Condé Nast
La mostra, nata da una recente acquisizione della Pinault Collection di una parte degli archivi fotografici di Condé Nast (1873-1942), propone circa 400 opere di ben 185 fotografi che, a partire dagli anni Venti e Trenta, sono diventati artisti di un mezzo fino ad allora usato a fini prettamente illustrativi. Questa schiera di fotografi operanti soprattutto in America, ma formati nel clima delle avanguardie europee, rinnovarono con il bianco e nero l’illustrazione di “Vogue” e “Vanity Fair”, importanti riviste internazionali di moda e tendenze culturali.
Chi era Condé Nast?
Da responsabile pubblicitario per “Collier’s Weekley”, a soli 36 anni, nel 1909 acquistava “Vogue”, una rivista allora in declino che, grazie a lui, diventerà un’importante vetrina cosmopolita, punto di riferimento per l’élite internazionale.Nato a New York, Condé Montrose Nast innovò in modo radicale il mondo dell’editoria di lusso e creò una palestra per i futuri grandi fotografi del Novecento
Nast riprogettò il magazine creando due nuove edizioni per l’Inghilterra e la Francia. Dopo il successo di “Vogue”, nel 1911, comprava anche le riviste “House & Garden” e “Travel” e infine, nel 1913, “Vanity Fair”.
Così facendo, Nast definiva lui stesso chi apparteneva a quella classe e nello stesso tempo, dava consigli su come vestirsi, comportarsi e di cosa interessarsi per entrare a far parte di quel mondo.La sua strategia vincente non puntava a un pubblico più vasto, ma a realizzare riviste fortemente specializzate e indirizzate a gruppi di lettori con gli stessi interessi
La direzione di “Vanity Fair” fu affidata a Frank Crowninshield (1872–1947), “l’uomo più colto, elegante e accattivante di Manhattan”, un giornalista che accettò l’incarico a patto di trasformare la rivista in un sofisticato magazine culturale per il pubblico femminile, dedito all’arte, al teatro, alla letteratura e allo sport.
Crowninshield, che restò alla direzione del magazine fino al 1935, pubblicò opere di grandi scrittori e artisti dell’epoca. Alcuni nomi: Huxley, Eliot, Molnár, Stein, Scott Fitzgerald Picasso e Matisse.
Nel venerdì nero le azioni in borsa di “Condé Nast Publications” crollarono e l’imprenditore perse il controllo del gruppo editoriale non riuscendo più a recuperare il successo e il benessere degli anni passati.Nell’ottobre del 1929, anche Nast fu travolto dal crollo di Wall Street e dalla grande recessione
Nel 1935, “Vanity Fair” si fuse con “Vogue” che venne ridata alle stampe solo nel 1981, per decisione della “Condé Nast Publications”. Nel 1939, Nast fondò anche la rivista “Glamour” per diffondere vita e fatti delle stelle di Hollywood e dare suggerimenti alle donne comuni per emularle nel campo della moda e della bellezza.
Nel 1941, Nast iniziò ad avere problemi di salute e morì un anno dopo. Le sue proprietà vennero vendute all’asta per saldare i debiti e dal 1959, il gruppo editoriale divenne proprietà della famiglia Newhouse.
La storia dell’archivio fotografico “Condé Nast”, inizia poco prima dello scoppio della Prima Grande Guerra e fin da subito cattura, con uno scatto originalissimo, il lento cambiamento del costume nel rapporto tra i sessi.Sette decenni di fotografia
La dottoressa americana Mary Walker (1), fotografata da Paul Thompson (1878-1940) intorno al 1911, si presenta in pantaloni e cappello a cilindro come mai prima d’ora era apparsa una donna. La foto, proveniente dall’archivio “Vanity Fair” e mai pubblicata, ritraeva la Walker (1832-1919), medico e chirurgo, attiva nell’esercito durante la Guerra di Secessione, come una femminista a favore delle prime suffragette. Leggenda vuole che al suo matrimonio abbia indossato giacca e pantaloni rifiutando di pronunciare la parola del rito “obbedire”, senza prendere il cognome del marito Albert Miller. Un anno dopo la sua morte, le donne bianche americane ottennero il diritto di voto.
Gli artisti più innovativi d’Europa che cavalcano l’avanguardia, nel 1913 sono invitati ad esporre all’Armory Show, una mostra cardine che a New York segnerà la nascita della modernità.I primi decenni del Novecento forgiano New York attraverso una straordinaria esplosione tecnologica: luce elettrica, telecomunicazioni, telefoni, radio e grattacieli investono la città
L’illustrazione grafica di George Wolfe Plank (1883-1965), presto soppiantata dalla fotografia, presenta le prime suggestioni dell’avanguardia europea già nel 1917. In La Modella mascherata (2), lo sfondo piatto di sapore Liberty e l’arcata disegnata dietro la donna richiama le piazze di Giorgio de Chirico. Plank, pur lavorando moltissimo per “Vogue”, illustrò ben sette copertine per “Vanity Fair” rinunciando, già da questi anni, al suo tipico stile tradizionale inglese a favore di una fantasia molto decorativa e di grande impatto per la moda e il gusto proposto da queste riviste.
Turbanti, gioielli, indumenti di seta e scarpe decorate con oro di sensualità lussureggiante, tipica degli harem, abbondano nelle immagini del pittore, incisore e fotografo Franz van Riel (1879-1950). Nato in Italia, ma vissuto in Argentina dove aveva un suo studio e galleria fotografica dedicata alla danza, van Riel nel ’17 ritrae la migliore ballerina russa di tutti i tempi, Anna Pavlova (3. I Ballerini Anna Pavlova e Hubert Stowitts), protagonista dei Balletti di Sergej Djagilev, qui a fianco di Hubert Stowitts, pittore e ballerino americano.Un’altra forte suggestione estetica di quegli anni, fu la fascinazione per l’Oriente e i suoi misteri
Maestro di queste novità il franco-tedesco Adolf de Meyer (1868-1946) che per primo si occupò di moda con l’introduzione della fotografia nelle riviste fino ad allora illustrate da grafici. Trasferito a New York con lo scoppio della Prima Grande Guerra, Meyer incontrò Condé Nast diventando fotografo per “Vogue” e “Vanity Fair”, dopo aver pubblicato a Londra per la prestigiosa rivista specializzata “Camera Work” di Alfred Stieglitz (1864-1946), l’uomo che innalzò la fotografia a materia d’arte.Nel decennio successivo, il sentimento di emancipazione della donna viene promosso dalla fotografia di “Vogue” attraverso modelle dallo sguardo determinato che fissano l’obiettivo esibendo pose forti dentro impaginazioni grafiche molto strutturate
Esemplare, da questo punto di vista, Bambina seduta accanto a un mappamondo (3), scatto di de Meyer del 1919, pubblicato su “Vogue” a corredo di un servizio sulla moda infantile.
La giovane modella, con un caschetto alla Charleston e un abito di Jeanne Lanvin, esibisce un volto imbronciato per il fastidio di essere stata interrotta dal suo studio del mappamondo, non a caso, esplicito emblema di potere maschile.
Presenti in mostra, tra i più importanti, Edward Weston, (1886-1958) Horst P. Horst (1906-1999), André Kertész (1894-1985), Robert Doisneau (1912-1994), Lee Miller (1907-1977), ed Edward Steichen (1879-1973), quest’ultimo, qui proposto in alcuni scatti significativi.Gli anni Venti e Trenta di ruggenti follie, entusiasmi e vertiginosi crolli, non solo economici, ma anche democratici, sono raccontati dalle foto di importanti artisti della camera promossi per il pubblico ristretto di “Vogue” e “Vanity Fair”
Interprete dell’estetica surrealista e delle linee geometriche alla Bauhaus, nonché amico di Man Ray (1890-1976), Steichen, già fondatore con Stieglitz di Photo-Secession (1902), è sicuramente uno dei più grandi fotografi impiegati da Condé Nast in questi anni.
Suo il ritratto dell’attrice americana, di origini cinesi, Anna May Wong (5) realizzato nel 1930 e quasi un omaggio allo scatto che Man Ray aveva dedicato alla musa e modella francese Kiki de Montparnasse quattro anni prima (Black and White, 1926), sempre per una copertina di “Vogue”. Qui, il dolce viso della musa asiatica, tipica bellezza degli anni ruggenti, con le sopracciglia sottili, i capelli corti e laccati, la bocca disegnata e la soffice delicatezza di un fiore accanto all’elegante robustezza del legno nero è un magnifico esempio del talento di Steichen, maestro nell’uso del contrasto e dell’armonia formale che caratterizzano le sue opere.
Di Steichen, anche il ritratto del futuro primo ministro inglese, nonché membro del partito conservatore, Winston Churchill (6) che giocherà un ruolo di primo piano nella vittoria degli alleati durante la Seconda Guerra Mondiale. L’artista lo ritrae in un cinematografico “piano americano”, un’inquadratura fino a metà coscia spesso impiegata da pittori come Jean-Auguste Ingres per immortalare i potenti, visti di profilo con lo sguardo rivolto verso destra, ossia verso il futuro.
Ne è testimone l’artista franco-giapponese Léonard Foujita (7), amico di Picasso e qui ritratto nel 1928, in posa dandy, dalla fotografa austriaca Dora Kallmus (1881-1963). Kallmus, soprannominata Madame d’Ora e formata a Vienna, era popolare presso l’aristocrazia austroungarica per aver immortalato Gustav Klimt e l’imperatore Carlo I. Nota a livello internazionale per le sue foto di moda, nel ‘24 apriva un secondo studio fotografico a Parigi lavorando con Joséphine Baker, Tamara de Lempicka, Coco Chanel, Jean Patou, Maurice Chevalier e Colette, tutti immortalati dai suoi scatti.Le riviste di Condé Nast parlano a un pubblico di persone benestanti che si godono il lusso, interpreti dell’identità iridescente della cafè society americana che in quegli anni collezionava l’École de Paris, ultima grande sponda dell’arte europea prima della Seconda Guerra Mondiale
Icona femminile di origini americane negli anni Venti parigini, fu la ballerina e performer, musa delle avanguardie, Joséphine Baker (8), fotografata nel ‘27 dal russo George Hoyningen-Huene (1900-1968). Con lo spettacolo musicale “La Revue nègre” (1924), di cui Baker era protagonista indiscussa, la ballerina mandava in frantumi le convenzioni del music-hall affidando un ruolo di primo piano al jazz, all’improvvisazione e a una danza selvaggia eseguita seminuda accanto a un ghepardo.
Del periodo parigino di Hoyningen-Huene, finito con gli anni Venti, i ritratti di stars internazionali come il compositore Igor Stravinsky (9), ispiratore dei “Balletti russi” a Parigi e quello dell’artista Alexander Calder (10), immortalato mentre lavora ad una delle sue opere più complesse, “Il Circo”.
I fotografi di “Vanity Fair”, sempre aggiornati sull’arte contemporanea, oltre ad importanti artisti dedicano i loro scatti anche ai simboli della modernità come i nuovi grattacieli newyorkesi qui proposti da Sherril Schell (1877-1964), fotografo americano appassionato di modernismo urbano. Fotografato nel 1930, l’Empire State Building (11) era stato costruito in stile Art Déco in un solo anno e mezzo e inaugurato nel ‘31. Con un’altezza di 382 metri e i suoi oltre cento piani, fu per molto tempo il più alto grattacielo della città e divenne il simbolo della New York anni Trenta. Questi magistrali scatti di Schell, con angolazioni sorprendenti e giochi di luce magistrali, lo hanno presto reso uno degli artisti di riferimento della “Julien Levy Gallery”, sede dell’avanguardia europea.
Tra la grande crisi del ‘29 e l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, le riviste di Nast concentrano l’attenzione sui campioni dello sport e lo spettacolo: atleti, ballerini, attori e attrici sfoggiano sulle pagine delle riviste, abiti lussuosi di stilisti famosi e gioielli.Steichen, suo amico e fervente ammiratore, si batté affinché le sue vedute di New York entrassero nelle collezioni del MoMA
Il campione di boxe dei pesi massimi Joe Louis (12), venne catturato da uno scatto di Lusha Nelson nel 1935, lo stesso anno in cui il fotografo lettone ritrasse il fuoriclasse Jesse Owens. Immigrato a New York appena quindicenne, tra lavori umili e saltuari, Nelson iniziò a fare pittura ma, negli anni Venti, scelse la fotografia perché più richiesta e remunerativa. Aveva studiato con Stieglitz e Steichen presso l’associazione Photo-Secession; divenuto un abile ritrattista, Nast lo reclutò nella sua squadra per “Vanity Fair” e “Vogue”.
Nelson maturò nel clima dell’avanguardia il suo modo di operare: inquadrature e angolazioni inconsuete come i punti di vista molto ribassati, le composizioni pulite e geometriche, i personaggi messi in posa prima dello scatto e la costante ricerca di una sospensione temporale metafisica.
Grande fotografo di icone e di moda, nonché lui stesso stilista, l’inglese Cecil Beaton (1904-1980) che a soli undici anni, prima della laurea in architettura, inizia a coltivare la passione per il media moderno collezionando foto di divi. A 23 anni, Beaton era assunto come disegnatore di “Vogue”, ma presto si faceva apprezzare come fotografo.Lavorando per un mercato molto circoscritto e mirato, Nelson rispondeva a precise richieste del committente al fine di ottenere uno specifico effetto sia formale, sia di comunicazione di contenuti
Il volto della leggendaria femme fatale del 20° secolo, Marlene Dietrich (13), musa di grandi stilisti mondiali, torna in una foto “pittorica”: il viso diafano spicca su uno sfondo nero, accompagnato da un giglio bianco abbagliante, due elementi che Beaton giustappone per comparare la bellezza vellutata dell’attrice alla delicatezza senza tempo del fiore altamente simbolico.
Quasi trent’anni dopo, Beaton provava ancora suggestive tecniche fotografiche per ritratti inediti di personaggi famosi, tra cui Anna Magnani (14), colta nell’essenza di più attimi in cui azionava gli scatti della macchina fotografica.
In seguito, Beaton diventa reporter di guerra e fotografo ufficiale del Ministero dell'Informazione Britannico e dopo le star hollywoodiane, restituisce nelle pagine di “Vogue” una realtà diversa, senza tuttavia rinunciare alla messa in scena.
Il giovane pilota e asso dell’aviazione, William James Daley Jr. (15), membro degli American Eagles, è fotografato nel ‘42 con la stessa eleganza e considerazione usata per le celebrità. Il militare è un attore in costume: lo sguardo e la posa, insieme all’inquadratura e all’uso sapiente della luce, conferiscono all’insieme un’atmosfera cinematografica, qualcosa di simile allo scatto del ‘44 per il generale Charles de Gaulle (16), visto dietro una scrivania ingombra, come a smentire la spontaneità dell’immagine.
Il ritratto di Kathy Slate con una bambola nella carrozzina (17), che la nota coppia di fotografi Diane (1923-1971) e Allan Arbus (1918-2013) eseguono nel ‘53, ne è esempio. Diane, in particolare, ricordata per il suo sguardo originale sui fenomeni fuori dal comune come il mondo dei freaks, ha sempre dimostrato un’attenzione peculiare per il mondo dell’infanzia di cui coglieva le frustrazioni e la violenza spesso sottesa.Dopo la Seconda Guerra Mondiale la fotografia di “Vogue” e “Vanity Fair” propone un’ideale più umanizzato e attento alla verità dell’attimo, anche se strano e inconsueto
Da sempre legato ad Hollywood, il fotografo Irving Penn (1917-2009), fratello maggiore del regista Arthur e collaboratore di “Vogue” fin dagli anni Quaranta. Nel ‘46 immortalava “l’occhio del secolo”, il grandissimo fotografo francese, Henri Cartier-Bresson (18), accanto alla ballerina giavanese e prima moglie, Ratna Mohini. Nel 1950, Penn sposava la svedese Lisa Fonssagrives (19), top model debuttata a Parigi grazie all’obiettivo di Horst P. Horst che l'aveva immortalata per l’edizione francese di “Vogue” negli anni Trenta.
La fotografa e anche attrice americana, Jean Howard (1910-2000) che negli anni Quaranta e Cinquanta fotografava Tyrone Power, Richard Burton, Judy Garland, Grace Kelly, Deborah Kerr, Laurence Olivier e Vivien Leigh, coglie il debuttante e giovanissimo Marlon Brando (20), su “Vogue” per pubblicizzare, da protagonista, il film “Un tram che si chiama Desiderio” (1951) di Elia Kazan.
Evelyn Hofer (1922-2009), fotografa e documentarista di origine tedesca, fuggita in America nel ‘33, ritrae per “Vogue” il più grande architetto americano del Novecento, Frank Lloyd Wright (21). Lo scatto, nello stile semplice e intimo della Hofer, restituisce l’ambiguità dell’attimo nella scelta del profilo ritagliato in un primo piano del vecchio maestro che, tristemente, nell’anno della morte, volge lo sguardo verso terra.
Dai modelli borghesi della famiglia anni Cinquanta che coltivava l’ideale perfetto di una bellezza senza tempo, nei due decenni successivi le pagine di “Vogue” risponderanno ai grandi cambiamenti sociali, politici e culturali.
Bert Stern (1929-2013), ebreo americano di origini polacche, tra i più ricercati e prestigiosi fotografi di moda, negli anni Sessanta era all’apice di una carriera folgorante. Per “Vogue”, nel 1962, aveva immortalato una Marilyn Monroe seminuda e cinque anni dopo, non poteva mancare di ritrarre l’emblema del nuovo modello femminile, Twiggy (22), una modella inglese, poi attrice e cantante, soprannominata appunto “stecchino” (twiggy) per la sua magrezza fuori norma. Twiggy raggiunse la celebrità grazie alla stilista Mary Quant che affidò al suo esile corpo il lancio della minigonna.Femminismo, diritti civili, pacifismo, ribellioni sessuali e tutte le molteplici contraddizioni di quegli anni, prendono forma in proposte rassicuranti per far fronte alle incertezze sociali con moda, bellezza e cultura
Anima della swinging London anni Sessanta, il fotografo inglese David Bailey (1938), i cui scatti esemplari della rivoluzione culturale in corso, catturano il giovanissimo Mick Jagger (23) che, da soli due anni, aveva fondato i Rolling Stones, la band più importante nella storia del rock. Jagger appare in un primo piano formato fototessera con gli occhioni grandi e una sensualissima bocca carnosa.
Franco Rubartelli (1937), fiorentino, ha lanciato con “Vogue” il volto di Veruschka (24), modella tedesca e sua compagna di vita e lavoro per nove anni. Scoperta a soli vent’anni da un altro importante fotografo, Ugo Mulas, Veruschka ha poi interpretato una piccola ma significativa parte in “Blow-Up” (1966) di Michelangelo Antonioni.
Veruschka esplorò la “Body painting”, ripresa dal fotografo nei suoi primi esperimenti di modella trasformata in animale selvatico, come nella foto qui proposta, un “testa a testa con un ghepardo” (1967).Con gli scatti di Rubartelli, Veruschka divenne l’iconografia della moda e del glamour anni Sessanta e Settanta, tanto da essere una delle modelle più pagate
L’incursione di “Vogue” nel mondo dell’Underground newyorkese è qui documentato grazie allo scatto che il fotografo americano Jack Robinson (1928-1997) dedicava all’attore Joe Dallesandro (25). Robinson, grande ritrattista per la rivista fin dagli anni Sessanta e frequentatore della Factory di Andy Warhol, aveva scattato alcune foto all’icona del momento, interprete di pellicole del noto artista pop, come "Flesh", "Lonesome Cowboys" e nello stesso anno in cui scattava la foto qui proposta, tutta giocata sull’ambiguo intreccio sensuale di braccia, anche "Trash" (1970).
Diana Vreeland, responsabile editoriale di “Vogue”, aveva affidato i principali incarichi di moda della rivista ai grandi fotografi quali Penn e Avedon, per destinare a Robinson una rubrica tutta sua, adatta ai suoi particolarissimi “ritratti” illustrati. "People Are Talking About" (1967-’71) presentava curiosi personaggi emergenti nella moda, nella musica, nel cinema e nella cultura in generale che parlavano di sé stessi: Leonard Cohen, Joni Mitchell, Crosby Stills Nash e Young, Elton John, Clint Eastwood, Jack Nicholson e tanti altri.
Per chiudere, uno scatto del ‘73, di Kourken Pakchanian (1934-1991), fotografo libanese emigrato a New York negli anni Sessanta, dedicato a un originale oggetto di design, vera e propria icona dell’epoca: la Bubble Chair (26) ideata nel 1968 da Eero Aarnio. Pakchanian intraprese in America una carriera di grande successo come fotografo di moda per “Vogue”, ma anche “Happer's Bazaar”, “Elle”, “Marie Clare”, “Sports Illustrated” e centinaia di altre riviste per le quali ideò campagne pubblicitarie per importanti marchi internazionali di tendenza. Il suo lavoro è oggi nella collezione permanente del “Getty Museum”.
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12.03.2023 – 07.01.2024
FOTO DI COPERTINA
Bert Stern, dettaglio dell’attore e cantautore Anthony Newley che danza con due modelle, 1963, Vogue © Condé Nast