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Pablo Neruda: con la forza d'un fiume d'amore

Intervista a Teresa Cirillo

Teresa Cirillo, ordinario di Letteratura ispano-americana all’Università “L’Orientale” di Napoli e traduttrice del poeta cileno, ci racconta il miracolo dell'amore nella poesia di Pablo Neruda.

Il periodare di Neruda ricorda l’abbondanza di un fiume come il Rio delle Amazzoni.


Con queste parole Teresa Cirillo ci offre un’immagine immediata della forza del verso nerudiano. L’impeto della parola che tutto travolge nel suo farsi metafora, la magia di una realtà narrata che rende più grande, unica e immortale la realtà dei fatti. Da dove prendeva tante e tali energie Neruda? Dall’amore. Carnale, materico, fatto di corpo e di baci, di tatto e profumi. L’amore che per sua natura trasforma il fisico in metafisico, il privato in universale, l’oggetto presente nella metafora di un’assenza.

C’è un Neruda autobiografico, un Neruda cantore dell’amore, un Neruda impegnato politicamente e socialmente… Ma qual è l’elemento di coesione, il filo rosso della poesia nerudiana?
Oltre l’apparente varietà di temi e di forme, la poesia di Neruda presenta una grande continuità. Il suo primo libro, pubblicato nel 1924 a soli vent’anni, Venti poesie d’amore e una canzone disperata, è un libro in cui si manifesta una sensualità molto accentuata; una sensualità disperata, in cui s’invoca la donna. Ebbene, questo filone dell’amore – amore prevalentemente carnale ed espresso con parole carnali, con versi che hanno il potere di una grande attrazione erotica – continuerà poi negli anni. Vi è dunque in Neruda una continuità d’ispirazione e di scrittura e, anche se subentrano nell’arco della sua vita numerose “svolte”, esse non inficiano questo filo rosso dell’erotismo. Il tema, infatti, riappare prepotente e immutato ne I versi del capitano, quasi trent’anni dopo quella prima pubblicazione. La poesia erotica di Neruda si esprime sempre con grande sfoggio di metafore, immagini, concatenazioni di parole che si riallacciano a visioni di luce, di splendore, di mare. Ci sono poi dei termini che tornano frequentemente – il mare, il vino, la vigna, il grappolo d’uva, le radici, gli alberi, la pioggia, le campane – e che testimoniano della continuità della sua poesia.

Neruda poeta della memoria: qual il debito che deve essere riscattato all’oblio?
Nella poesia di Neruda è frequente l’accenno alle radici. D’altronde il poeta cileno era un uomo abituato a vagare per il mondo e aveva bisogno di una realtà a cui aggrapparsi, che era poi la realtà della sua infanzia. Un’infanzia trascorsa nel sud del Cile, in una città piovosa, con grandi foreste e che torna insistente nei suoi paesaggi interiori. Vi è un continuo scavare dentro di sé, nella propria mente e nella propria memoria. Uno dei libri più importanti di Neruda – a testimonianza del valore della memoria nella sua poesia – s’intitola Memorial de Isla Negra. Fu pubblicato dall’autore in occasione del suo sessantesimo compleanno, nel 1964, e una delle prime liriche è dedicata, ancora una volta, a un’immagine cara della sua infanzia: lamamadre, nome che Neruda usava per chiamare la sua matrigna (O dolce mamadre/ mai potrei dire matrigna). Ma il libro fornisce a Neruda anche un’occasione per ricostruire il suo rapporto con la poesia: l’autore si chiede infatti quando sia nata la sua vocazione poetica e da dove gli venisse quell’empito, quella necessità di scrivere. Necessità che lo aveva spinto, a soli 14 anni, a tracciare i suoi primi versi, incoraggiato in questo dall’altro premio Nobel cileno Gabriella Mistral.

In che modo l’esasperato soggettivismo di Neruda travalica nel motivo universale?
È la poesia che diventa universale. Quando una cosa tanto banale come lo scavalcare un muro per cogliere un rametto di melo diventa poesia, automaticamente si affranca dall’evento autobiografico iniziale. Quello di Neruda era un dono, affinato e reso duttile dall’intelligenza, ma del tutto spontaneo. Dimostrazione ne è la facilità con cui gli venivano i versi. Credo, invece, che Neruda non sia più un poeta quando scrive di politica, quando cade nell’apologia.

Neruda-Borges: è un binomio pieno d’attriti. Il primo lamentava la scarsa partecipazione dell’argentino ai temi di ordine sociale e il secondo disprezzava gli sforzi del cileno di far della politica una poesia. Qual è il differente uso e valore della metafora in questi due autori?
Neruda ha una poesia magniloquente, maestosa, ampia, tipica degli scrittori latino-americani delle ultime generazioni. Il suo periodare ricorda l’abbondanza di un fiume come il Rio delle Amazzoni. La metafora nerudiana è sempre in funzione di un’immagine, di una grossa immagine. Borges invece, nel suo poetare, non usa vere metafore: la metafora di Borges è intellettualistica, con le sue invenzione fantastiche, con i libri che non esistono o si riscrivono continuamente. Direi che Borges è un uomo di testa, mentre Neruda è un uomo di cuore.

A cura di Francesca Garofoli