Rai Cultura

Giuseppe Lupo, Breve storia del mio silenzio

Una formazione lucana

In Breve storia del mio silenzio, pubblicato da Marsilio, Giuseppe Lupo ripercorre le tappe della propria formazione, partendo dal periodo di mutismo causato a quattro anni dalla nascita di sua sorella. Passato il primo periodo il protagonista riprende a parlare, ma non scopre i grandi romanzi fino a quando non prova il trauma di sentire la terra tremare e suo padre pronunciare le parole “ora che siamo salvi si può raccontare”. Le sue scoperte partono da Cristo si è fermato a Eboli che impara quasi a memoria e da quel momento non si fermano più. Cresciuto ad Atella, in Basilicata con la madre maestra elementare e il padre che fa lo stesso mestiere e insieme anima il circolo letterario La Torre dove passano intellettuali come Carlo Aiello e Leonardo Sinisgalli, il ragazzo viene destinato a Milano, città degli illuministi. La visita una prima volta insieme ai genitori, torna con loro a cercare un alloggio, scopre Lambrate, studia letteratura alla Cattolica. Già autore degli Anni del nostro incanto in cui esplorava in forma di romanzo gli anni sessanta, Lupo ora si sposta sul versante autobiografico, mirando a rendere il gusto, i suoni, gli odori della sua infanzia. Nella parte finale del libro si racconta il desiderio di diventare uno scrittore: i primi tentativi di pubblicare e l’incontro con Raffaele Crovi e poi con Cesare De Michelis, di cui viene tracciato un commosso ricordo.
 

Ho quattro anni e vedo mia madre in cima alla scala, che lucida il lampadario d’ottone. Strofina con l’ovatta imbevuta di Sidol, ma lo fa con troppa calma per essere la vigilia di Natale. È in ritardo sulle pulizie come sempre. Quel tempo non va sprecato. Mio padre gironzola intorno e non muove un dito. Guarda contempla, misura a occhio. In questo disordine sento dire: Fra poco avremo una sorellina.



Giuseppe Lupo  è nato in Lucania (Atella, 1963) e vive in Lombardia, dove insegna letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano e Brescia. Per Marsilio, dopo l’esordio con L’americano di Celenne (2000), ha pubblicato Ballo ad Agropinto (2004), La carovana Zanardelli (2008), L’ultima sposa di Palmira (2011), Viaggiatori di nuvole (2013), Atlante immaginario (2014), L’albero di stanze (2015) e Gli anni del nostro incanto (2017; Premio Viareggio Rèpaci). È autore di numerosi saggi e collabora alle pagine culturali del Sole 24 Ore e di Avvenire.

Di seguito l'intervista di Rai Letteratura.

In Breve storia del mio silenzio lei scrive che fu il terremoto a farla diventare lettore. Può spiegarci in che senso?
Perché fino a quell’evento, cioè fino ai miei diciassette anni, leggevo soltanto per ragioni scolastiche, obbligati dai professori. L’inverno che seguì al terremoto invece, vuoi perché non avevo altro da fare, vuoi per la paura di morire, ho cominciato a prendere in mano i libri che avevo a casa e mi sono appassionato all’idea che, immergendomi nelle storie, mi dimenticavo le mie paure. In quel momento ho scoperto che leggere è un modo per moltiplicare la vita e dimenticare la minaccia della morte. E ho capito anche che non avrei potuto vivere lontano dai libri.

In questo libro ci sono due poli: la Basilicata e Milano. Cosa rappresentano l’una e l’altro nella formazione del protagonista? 
La Basilicata rappresenta la condizione originaria e appenninica, una geografia che significa memoria, identità, inflessione verbale, un momento in cui tutto vive nell’attesa del domani. Milano è invece il racconto dell’impatto con la modernità, la sfida dell’uomo con il mondo, il sogno di una civiltà illuminata dalla forza della ragione e dalle fabbriche. Il padre del protagonista parla sempre di un illuminismo lombardo, che vuol dire democrazia, efficienza, organizzazione, progetto. La Basilicata è il labirinto dell’Appennino, Milano è la geometria razionale della pianura. Nell’oscillare tra questi due poli geografici e morali mi trovo io

Questo romanzo segue Gli anni del nostro incanto incentrato sugli anni sessanta: qual è il rapporto tra i due libri?
Negli Anni del nostro incanto ho raccontato la modernità (che è il tema fondamentale del Novecento e anche il tema principale della mia curiosità intellettuale) che si manifestava attraverso gli oggetti del progresso tecnologico e della società dei consumi: frigoriferi, televisori, lavatrici, automobili. In Breve storia del mio silenzio racconto ugualmente la modernità di Milano, ma è quella che si manifesta attraverso la cultura, i libri. Due romanzi in parallelo che raccontano le trasformazioni di una nazione

Nell’ultima parte del libro si racconta il percorso verso la scrittura: un percorso non facile ma animato da grande perseveranza fino all’incontro con l’editore Cesare De Michelis a cui è dedicato un commosso ricordo. Può dirci qualcosa a questo proposito?
Nel libro assume un valore simbolico la pioggia, che cade con un suo ritmo, con una sua metrica in grado di restituire al bimbo di cui si racconta il ritmo delle parole. Secondo la madre del protagonista, l’acqua poteva evocare il linguaggio e la scrittura. Tutto il percorso del protagonista è orientato inseguendo l’acqua. Prima c’è Milano, che è la città sull’acqua e delle case editrici, dei giornali. Poi c’è Venezia, la città dove il protagonista trova la casa che avrebbe stampato le sue storie. Cesare De Michelis è Marsilio. È stata una persona con cui ho condiviso un dialogo fatto di incontri e di silenzi, lui a Venezia, io a Milano. Quando i ci vedevamo, parlavamo a lungo del perché gli uomini scrivono, del valore che hanno le storie e i libri nel destino dell’umanità.

Lessico famigliare è citato nella bandella ma non nel libro che pure si sofferma molto sulle letture del protagonista. Qual è stata l’influenza di Natalia Ginzburg sullo stile e sui contenuti di Breve storia del mio silenzio?
Lessico famigliare l’ho letto da adulto, quando mi ero già formato come uomo, e ne ho apprezzato tantissimo l’originalità di questa famiglia e del suo modo di conversare. Quando pensavo a qualcosa che sarebbe diventato Breve storia del mio silenzio, pensavo al libro di Natalia Ginzburg, alla necessitò che quella famiglia - ogni nucleo familiare – avesse manifestato la necessità di parlare una propria lingua. Anch’io vengo da una famiglia che aveva una sua caratteristica nello stare insieme, nel parlare, per esempio lo scherzo di cominciare le storie e di non portarle a termine. E questa caratteristica l’ho raccontata come forma di silenzio.