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Canto 18 - Marmo
Inferno
QUASI UN DIARIO DI VIAGGIO di Lamberto Lambertini
Le cave le avevamo previste come un modello perfetto dell'imbuto infernale. Usciti dal tunnel, la visione supera la previsione. Uno scavo infinito, un rincorrersi di terrazze, scavate dal millenario lavoro dell'uomo. Ci par di vedere Michelangelo che aguzza gli occhi, sospeso in un punto inaccessibile, scegliendo, accarezzandolo, un marmo senza vene maligne. Ne ha intravisto la forma nascosta. Gli studi di scultura ci ributtano in pieno ottocento. Come un set fuori del tempo. Dai calchi del fondatore alle riproduzioni delle star della scultura contemporanea. Scopriamo le cave sottoterra. E chi lo sapeva? Come avranno fatto a trasportare quei mastodontici blocchi, tonnellate di marmo, fino alla luce del sole? Uomini e buoi.
XVIII - MARMO (Carrara)
Cave di Carrara
La catena delle Alpi Apuane oltre ad un ambiente naturale di incomparabile ed originale bellezza,
è un immenso giacimento di marmi, i più pregiati e famosi dei quali si trovano in tre Canali principali: Canali di Torano, di Miseglia, di Colonnata. L’escavazione, il trasporto, la lavorazione: in queste tre fasi fondamentali della produzione marmifera si è sviluppata una lenta ma incessante ricerca «tecnologica» che ormai ha duemila anni di vita. Studi di Scultura Nicoli
Fondati nel 1830 gli Studi di Scultura Nicoli lavorano dopo sei generazioni nel campo della trasformazione artistica della pietra, nella creazione di opere d'arte contemporanea, nella produzione di copie della tradizione classica o neoclassica.
Sinossi a cura di Aldo Onorati
Sabato 9 aprile. Si è prossimi alla nascita del sole.
È l’ottavo cerchio, quello delle Malebolge. Naturalmente il guardiano è Gerione, che simboleggia la frode. Nella prima bolgia sono puniti i seduttori e i ruffiani. Nella seconda, gli adulatori. I primi vengono frustati dai diavoli, che da questo punto iniziano ad avere una sorta di protagonismo corale comico-malvagio (e ne vedremo di belle!). Le sferzate che i demoni infliggono ai dannati, arrivano dietro, alle caviglie: contrappasso della volgare abiettezza delle loro azioni nel mondo.
La pietra è scura, color ferro rugginoso. Proprio nel mezzo del vasto campo, si apre un pozzo profondo e lato (Dante preannuncia che a tempo debito mostrerà la complessa struttura del luogo digradante). La fascia (il cinghio) compresa tra il pozzo e il piede dell’alta ripa dura, si distingue in dieci bolge (valli).
Al tempo di Dante era naturale fare similitudini grandiose coi castelli, le alte mura, i fossati, e i ponticelli che uniscono la fortezza alla riva opposta. Così appare al poeta quel posto, le cui vallate erano unite e attraversate da “scogli”, cioè ponti di roccia, fino ad arrivare al bordo del pozzo dei giganti. Ivi li scaricò dalla propria schiena Gerione; Virgilio volse il cammino a sinistra, e Dante lo seguì.
In Inferno si svolta sempre a mano manca, mentre in Purgatorio a destra (sono due simboli opposti: la sinistra è emblema di negatività nel male; la dritta porta verso il bene; alla stessa maniera, in Purgatorio Dante incontrerà solo angeli biondi, mentre nel regno delle tenebre i diavoli sono neri, e la luminosità tende dal rosso al violetto).
I ruffiani e i seduttori marciano in senso contrario fra loro (sotto il tormento di nuovi frustatori), come i Romani che, per la gran folla, l’anno del giubileo, camminano sul Ponte di Castel Sant’Angelo chi guardando il mausoleo di Adriano per dirigersi a San Pietro e chi volgendo la fronte verso il monte Giordano, sulla riva sinistra del fiume, tornando dalla preghiera nella chiesa dedicata al principe degli Apostoli. Questo passo è importante, perché si riferisce all’anno giubilare 1300 voluto da Papa Bonifacio VIII.
I diavoli piovono da ogni parte “cornuti con gran ferze,/ che li battien crudelmente di retro” (v. 35-36).
Anche questo canto guerreggia con rime astruse, al limite del possibile, giocando con lo stile comico o mezzano, fino all’orlo della coprolalia (ma come poteva Dante usare eufemismi che avrebbero indebolito la forza espressiva con cui descrive un ambiente refrattario a ogni accostamento liricizzante?). Tra le varie forme della grandezza dell’Alighieri, c’è anche la sua duttilità linguistica a usare ognuno dei tre stili classici a seconda delle circostanze, dei luoghi, delle atmosfere e delle persone (all’opposto della lingua che ritrae Taide, c’è l’ornamento quasi stilnovistico-floreale che descrive Matelda, ad esempio).
Mentre il pellegrino procede, i suoi occhi si scontrano con un volto, tanto che Dante immediatamente dice: “Non mi pare la prima volta che vedo costui”. Così ferma il cammino, e con lui Virgilio, ma “quel frustato celar si credette/ bassando il viso; ma poco li valse…” (è una sottile indicazione di vergogna da parte del dannato: le sfumature diverse per ogni incontro vanno tenute nel giusto conto, perché corrispondono a significazioni addirittura di ordine morale). Il pellegrino, infatti, lo riconosce, cominciando così: “O tu che guardi verso terra, se i lineamenti del viso non sono falsati, tu sei Vanedico Caccianemico”. Lo blocca al riconoscimento con una perifrasi retorica efficace: il dannato non può negare.
Chi sia costui, è lungo narrare. Fu un uomo potente (morì nel 1303, ma Dante era convinto che fosse morto tre anni prima), ma qui è ricordato –con sottinteso disprezzo- per un fatto ripugnante: fu prosseneta nel dare la sorella Ghisola “a Obizzo da Esti, marchese di Ferrara, per danari ch’elli ne ebbe” (scrive il Buti). “I’ fui colui che la Ghisolabella/ condussi a far la voglia del marchese, /come che suoni la sconcia novella” (v. 55-57). Infatti, noi prendiamo per vero il racconto di Dante, benché non sembrino risultare notizie in proposito. Ed ecco che sopraggiunge lo staffilatore: “Così parlando il percosse un demonio /de la sua scuriada, e disse: “Via,/ ruffian! qui non son femmine da conio” (v. 64-66), cioè donne da abbindolare.
Il pellegrino raggiunge Virgilio, per allontanarsi con lui salendo su un ponte di roccia. Ed ecco un uomo dal portamento regale, Giasone, mitico eroe delle gesta degli Argonauti (nel XXXIII del Paradiso Dante userà “l’ombra d’Argo” come riferimento metaforico potentissimo riguardante il buio della sua memoria di fronte al ricordo della visione di Dio).
Dante riprende da Ovidio e da Stazio (Tebaide) le avventure di Giasone, qui punito come seduttore sia di Isifile che di Medea, la quale ultima lo aveva aiutato a impadronirsi del vello d’oro. Abbandonata anche lei per sposare Creusa, Medea, distrutta dalla gelosia, uccise al cospetto del padre (Giasone) i due figli avuti da lui.
Il realismo di Dante diviene assoluto, quasi spietato in senso di verità descrittiva senza levigature, nella seconda bolgia, quella degli adulatori immersi nello sterco, che parevano venuti dalle latrine degli uomini. Il puzzo e la lordura fanno da padroni della scena. L’abbassamento linguistico aderisce alla materia della narrazione: “E mentre ch’io laggiù con l’occhio cerco, / vidi un col capo sì di merda lordo, / che non parea s’era laico o cherco” (v. 115-117). Si noti la derisione, e la comicità del tutto, specie del verso 117. Il passo riguardante Alessio Interminelli è di una bellezza e potenza intrise di arguzia e umorismo, da rendere veramente il “volgare” capace di tutti gli usi, e quindi degno di assurgere a lingua comprensiva dei tre stili canonici. E Virgilio invita l’allievo a spingere oltre la vista, per guardare Taide, “quella sozza e scapigliata fante / che là si graffia con l’unghie merdose” (v. 130-131). L’adulazione ha un contrappasso netto: una punizione beffarda, degradante come è degradante lodare falsamente altrui. Taide, celebre etera ateniese del IV sec. a. C., è presa dall’Alighieri quale simbolo dell’adulazione femminile, ma sulla versione dantesca del personaggio sono sorti dubbi già nei commentatori antichi, compreso Pietro di Dante.
Le cave le avevamo previste come un modello perfetto dell'imbuto infernale. Usciti dal tunnel, la visione supera la previsione. Uno scavo infinito, un rincorrersi di terrazze, scavate dal millenario lavoro dell'uomo. Ci par di vedere Michelangelo che aguzza gli occhi, sospeso in un punto inaccessibile, scegliendo, accarezzandolo, un marmo senza vene maligne. Ne ha intravisto la forma nascosta. Gli studi di scultura ci ributtano in pieno ottocento. Come un set fuori del tempo. Dai calchi del fondatore alle riproduzioni delle star della scultura contemporanea. Scopriamo le cave sottoterra. E chi lo sapeva? Come avranno fatto a trasportare quei mastodontici blocchi, tonnellate di marmo, fino alla luce del sole? Uomini e buoi.
XVIII - MARMO (Carrara)
Cave di Carrara
La catena delle Alpi Apuane oltre ad un ambiente naturale di incomparabile ed originale bellezza,
è un immenso giacimento di marmi, i più pregiati e famosi dei quali si trovano in tre Canali principali: Canali di Torano, di Miseglia, di Colonnata. L’escavazione, il trasporto, la lavorazione: in queste tre fasi fondamentali della produzione marmifera si è sviluppata una lenta ma incessante ricerca «tecnologica» che ormai ha duemila anni di vita. Studi di Scultura Nicoli
Fondati nel 1830 gli Studi di Scultura Nicoli lavorano dopo sei generazioni nel campo della trasformazione artistica della pietra, nella creazione di opere d'arte contemporanea, nella produzione di copie della tradizione classica o neoclassica.
Sinossi a cura di Aldo Onorati
Sabato 9 aprile. Si è prossimi alla nascita del sole.
È l’ottavo cerchio, quello delle Malebolge. Naturalmente il guardiano è Gerione, che simboleggia la frode. Nella prima bolgia sono puniti i seduttori e i ruffiani. Nella seconda, gli adulatori. I primi vengono frustati dai diavoli, che da questo punto iniziano ad avere una sorta di protagonismo corale comico-malvagio (e ne vedremo di belle!). Le sferzate che i demoni infliggono ai dannati, arrivano dietro, alle caviglie: contrappasso della volgare abiettezza delle loro azioni nel mondo.
La pietra è scura, color ferro rugginoso. Proprio nel mezzo del vasto campo, si apre un pozzo profondo e lato (Dante preannuncia che a tempo debito mostrerà la complessa struttura del luogo digradante). La fascia (il cinghio) compresa tra il pozzo e il piede dell’alta ripa dura, si distingue in dieci bolge (valli).
Al tempo di Dante era naturale fare similitudini grandiose coi castelli, le alte mura, i fossati, e i ponticelli che uniscono la fortezza alla riva opposta. Così appare al poeta quel posto, le cui vallate erano unite e attraversate da “scogli”, cioè ponti di roccia, fino ad arrivare al bordo del pozzo dei giganti. Ivi li scaricò dalla propria schiena Gerione; Virgilio volse il cammino a sinistra, e Dante lo seguì.
In Inferno si svolta sempre a mano manca, mentre in Purgatorio a destra (sono due simboli opposti: la sinistra è emblema di negatività nel male; la dritta porta verso il bene; alla stessa maniera, in Purgatorio Dante incontrerà solo angeli biondi, mentre nel regno delle tenebre i diavoli sono neri, e la luminosità tende dal rosso al violetto).
I ruffiani e i seduttori marciano in senso contrario fra loro (sotto il tormento di nuovi frustatori), come i Romani che, per la gran folla, l’anno del giubileo, camminano sul Ponte di Castel Sant’Angelo chi guardando il mausoleo di Adriano per dirigersi a San Pietro e chi volgendo la fronte verso il monte Giordano, sulla riva sinistra del fiume, tornando dalla preghiera nella chiesa dedicata al principe degli Apostoli. Questo passo è importante, perché si riferisce all’anno giubilare 1300 voluto da Papa Bonifacio VIII.
I diavoli piovono da ogni parte “cornuti con gran ferze,/ che li battien crudelmente di retro” (v. 35-36).
Anche questo canto guerreggia con rime astruse, al limite del possibile, giocando con lo stile comico o mezzano, fino all’orlo della coprolalia (ma come poteva Dante usare eufemismi che avrebbero indebolito la forza espressiva con cui descrive un ambiente refrattario a ogni accostamento liricizzante?). Tra le varie forme della grandezza dell’Alighieri, c’è anche la sua duttilità linguistica a usare ognuno dei tre stili classici a seconda delle circostanze, dei luoghi, delle atmosfere e delle persone (all’opposto della lingua che ritrae Taide, c’è l’ornamento quasi stilnovistico-floreale che descrive Matelda, ad esempio).
Mentre il pellegrino procede, i suoi occhi si scontrano con un volto, tanto che Dante immediatamente dice: “Non mi pare la prima volta che vedo costui”. Così ferma il cammino, e con lui Virgilio, ma “quel frustato celar si credette/ bassando il viso; ma poco li valse…” (è una sottile indicazione di vergogna da parte del dannato: le sfumature diverse per ogni incontro vanno tenute nel giusto conto, perché corrispondono a significazioni addirittura di ordine morale). Il pellegrino, infatti, lo riconosce, cominciando così: “O tu che guardi verso terra, se i lineamenti del viso non sono falsati, tu sei Vanedico Caccianemico”. Lo blocca al riconoscimento con una perifrasi retorica efficace: il dannato non può negare.
Chi sia costui, è lungo narrare. Fu un uomo potente (morì nel 1303, ma Dante era convinto che fosse morto tre anni prima), ma qui è ricordato –con sottinteso disprezzo- per un fatto ripugnante: fu prosseneta nel dare la sorella Ghisola “a Obizzo da Esti, marchese di Ferrara, per danari ch’elli ne ebbe” (scrive il Buti). “I’ fui colui che la Ghisolabella/ condussi a far la voglia del marchese, /come che suoni la sconcia novella” (v. 55-57). Infatti, noi prendiamo per vero il racconto di Dante, benché non sembrino risultare notizie in proposito. Ed ecco che sopraggiunge lo staffilatore: “Così parlando il percosse un demonio /de la sua scuriada, e disse: “Via,/ ruffian! qui non son femmine da conio” (v. 64-66), cioè donne da abbindolare.
Il pellegrino raggiunge Virgilio, per allontanarsi con lui salendo su un ponte di roccia. Ed ecco un uomo dal portamento regale, Giasone, mitico eroe delle gesta degli Argonauti (nel XXXIII del Paradiso Dante userà “l’ombra d’Argo” come riferimento metaforico potentissimo riguardante il buio della sua memoria di fronte al ricordo della visione di Dio).
Dante riprende da Ovidio e da Stazio (Tebaide) le avventure di Giasone, qui punito come seduttore sia di Isifile che di Medea, la quale ultima lo aveva aiutato a impadronirsi del vello d’oro. Abbandonata anche lei per sposare Creusa, Medea, distrutta dalla gelosia, uccise al cospetto del padre (Giasone) i due figli avuti da lui.
Il realismo di Dante diviene assoluto, quasi spietato in senso di verità descrittiva senza levigature, nella seconda bolgia, quella degli adulatori immersi nello sterco, che parevano venuti dalle latrine degli uomini. Il puzzo e la lordura fanno da padroni della scena. L’abbassamento linguistico aderisce alla materia della narrazione: “E mentre ch’io laggiù con l’occhio cerco, / vidi un col capo sì di merda lordo, / che non parea s’era laico o cherco” (v. 115-117). Si noti la derisione, e la comicità del tutto, specie del verso 117. Il passo riguardante Alessio Interminelli è di una bellezza e potenza intrise di arguzia e umorismo, da rendere veramente il “volgare” capace di tutti gli usi, e quindi degno di assurgere a lingua comprensiva dei tre stili canonici. E Virgilio invita l’allievo a spingere oltre la vista, per guardare Taide, “quella sozza e scapigliata fante / che là si graffia con l’unghie merdose” (v. 130-131). L’adulazione ha un contrappasso netto: una punizione beffarda, degradante come è degradante lodare falsamente altrui. Taide, celebre etera ateniese del IV sec. a. C., è presa dall’Alighieri quale simbolo dell’adulazione femminile, ma sulla versione dantesca del personaggio sono sorti dubbi già nei commentatori antichi, compreso Pietro di Dante.