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Microstoria della canzone italiana
Dal caffè concerto alla trap
In principio era il caffè concerto, il salotto buono in cui la tradizione regionale della canzone napoletana incontra il melodramma e le prime esigenze d'intrattenimento popolare. Poi venne la radio, e per tutti gli anni Venti e Trenta del Novecento fu un fiorire di voci senza volto che propagandavano con eleganza le politiche del regime fascista.
1945. Con le truppe americane arrivano anche il jazz, lo swing e l'idea di rinnovamento ritmico: Renato Carosone e Fred Buscaglione inventano canzoni che funzionano come piccoli, irriverenti atti teatrali.
Nascono i grandi festival: Sanremo, il Festival di Napoli e, nel 1956, il Gran Premio Eurovisione della Canzone. Alla dittatura della performance si oppone a sorpresa il ballo scattoso di Adriano Celentano, mentre lo chansonnier Luigi Tenco uccide con noncuranza il conformismo dei buoni sentimenti: “mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare”.
Arriva il beat, che incamera le istanze della nascente controcultura. "Il mio mitra è un contrabbasso che ti spara sulla faccia ciò che penso della vita", cantano gli Area di Demetrio Stratos. Gioia e Rivoluzione vanno in scena nella Woodstock italiana di Parco Lambro. Si definiscono gli schieramenti: l'intellettuale De Andrè da una parte e il bon sauvage Battisti dall'altra. Oracolo della sinistra l'uno, mito della destra l'altro.
Anni Ottanta, il decennio di plastica. Che bella però la new wave dei CCCP e dei Diaframma, che nulla più deve al passato e guarda dritta in faccia al pop d'oltremanica!
Suonano quasi più conformisti gli anni Novanta. Malgrado l'indie d'autore di Afterhours e Marlene Kuntz, la gioiosa macchina da guerra pop di Laura Pausini impone ben oltre i confini italici la consapevolezza commerciale di una tradizione storica fatta di melodia, bel canto e racconto dei sentimenti.
Saltano infine generi, etichette e definizioni nelle playlist del nostro presente digitale in cui tutto si mischia senza previsione o pregiudizio. Chissà come la storia giudicherà quest'ultimo capitolo del grande romanzo collettivo che è la nostra canzone nazionale.
1945. Con le truppe americane arrivano anche il jazz, lo swing e l'idea di rinnovamento ritmico: Renato Carosone e Fred Buscaglione inventano canzoni che funzionano come piccoli, irriverenti atti teatrali.
Nascono i grandi festival: Sanremo, il Festival di Napoli e, nel 1956, il Gran Premio Eurovisione della Canzone. Alla dittatura della performance si oppone a sorpresa il ballo scattoso di Adriano Celentano, mentre lo chansonnier Luigi Tenco uccide con noncuranza il conformismo dei buoni sentimenti: “mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare”.
Arriva il beat, che incamera le istanze della nascente controcultura. "Il mio mitra è un contrabbasso che ti spara sulla faccia ciò che penso della vita", cantano gli Area di Demetrio Stratos. Gioia e Rivoluzione vanno in scena nella Woodstock italiana di Parco Lambro. Si definiscono gli schieramenti: l'intellettuale De Andrè da una parte e il bon sauvage Battisti dall'altra. Oracolo della sinistra l'uno, mito della destra l'altro.
Anni Ottanta, il decennio di plastica. Che bella però la new wave dei CCCP e dei Diaframma, che nulla più deve al passato e guarda dritta in faccia al pop d'oltremanica!
Suonano quasi più conformisti gli anni Novanta. Malgrado l'indie d'autore di Afterhours e Marlene Kuntz, la gioiosa macchina da guerra pop di Laura Pausini impone ben oltre i confini italici la consapevolezza commerciale di una tradizione storica fatta di melodia, bel canto e racconto dei sentimenti.
Saltano infine generi, etichette e definizioni nelle playlist del nostro presente digitale in cui tutto si mischia senza previsione o pregiudizio. Chissà come la storia giudicherà quest'ultimo capitolo del grande romanzo collettivo che è la nostra canzone nazionale.