Francesco Totaro. Morte, separazione, dominio in Heidegger, Severino e Paolo di Tarso
Heidegger nel pensiero di Severino
Francesco Totaro, intervistato in occasione del congresso internazionale Heidegger nel pensiero di Severino. Metafisica, Religione, Politica, Economia, Arte, Tecnica, che si è tenuto dal 13 al 15 giugno a Brescia, illustra i punti essenziali della sua relazione, di cui pubblichiamo di seguito il testo dell’abstract.
La riflessione che intendo proporre parte dalla considerazione della crucialità del concetto di separazione, in quanto distanza tra ciò che chiamo, rispettivamente, essere per sé ed essere per noi. La separazione non indica semplicemente una distanza, ma anche una contraddizione, poiché è il sintomo più evidente del non apparire di ciò che invece dovrebbe apparire, vale a dire l’attualità della relazione pienamente manifesta tra l’Intero e le sue determinazioni (tra l’essere e gli essenti). È pure il caso di ricordare che il tema della separazione – Trennung – gode di una presenza elevata nella speculazione della filosofia idealistica – basti menzionare Hegel – e anche post- idealistica – per esempio Marx – dove si lega alle figure dell’alienazione e del dominio. Il legame della morte con la separazione e il dominio è a sua volta suscettibile di una esplorazione circolare, dal momento che l’esercizio del dominio si esprime spesso come potere di separazione e di morte, avendo al tempo stesso come propria radice la separazione e la morte.
Ho pensato di intrecciare le posizioni di Heidegger, Severino e Paolo di Tarso prendendo le mosse da quest’ultimo e, in particolare, dalla coppia concettuale separazione-inseparabilità entro cui egli inquadra la figura cristica (Rm 8,28-39) nella relazione con i chiamati alla sequela. L’inseparabilità si esprime nella persuasione di in-consistenza e di superamento di ogni evento apparentemente antitetico, soprattutto dell’evento-morte (uso il termine sebbene confiscato nel gelido frasario da compagnia di assicurazione).
Si può dire di una presenza significativa del tema della Trennung in Heidegger? Un criterio plausibile per rispondere alla domanda sarebbe l’accertamento della rilevanza della contraddizione nelle movenze fondamentali della sua filosofia. La condizione nella quale l’ente è senza l’Essere chiudendosi nella propria enticità – nella “gettatezza” e nell’”abbandono” dell’Essere in senso soggettivo e oggettivo – giunge in Heidegger ad assumere il pathos della separazione (il patire la separazione come contraddizione) oppure si risolve dapprima nella descrizione dell’analitica esistenziale e poi, con la figura dell’Ereignis, nella “fondazione” circolare di Essere ed esserci? Il “fendersi” che si apre nel salto nell’Essere in quanto evento è interpretabile come apertura di una separazione? Esperire “l’abisso come appartenente all’evento” è, ancora di nuovo, l’esperire della separazione? Che l’essere per la morte debba essere pensato “nella prospettiva della fondazione della verità dell’Essere”, e non come la messa a punto di una “filosofia della morte”, ha a che fare con il superamento di una separazione ri-conoscibile, superamento da ascrivere alla “permanenza dell’Essere” o alla Wesung come “essenziarsi” continuativo dell’Essere nell’esserci? Ma in forza di che cosa il superamento può avvenire? Forse, molto heideggerianamente, dovremmo arrestarci sulla soglia della domanda, non disponendo della leva della non contraddizione. Si può invece assumere che la concettualità heideggeriana, diversamente contestualizzata, sia feconda nel pensare la relazione tra Essere e ente una volta che sia stata superata la loro separazione grazie all’impiego del giudizio di attribuzione dell’essere all’Intero, preso concretamente con la totalità delle sue determinazioni. Nel ritmo oscillante di svelarsi-velarsi, darsi e ritrarsi, Heidegger ci può suggerire le categorie per una descrittiva della “storia” della relazione inscindibile tra Essere e ente, tra essere incondizionato ed essere condizionato, oltre la logica lineare di uno storicismo acritico e superficiale.
In Severino la Trennung è figura pregnante della contraddizione dello stare nel divenire senza sporgere rispetto alla sua interpretazione come risoluzione nel nulla. La terra separata o, più propriamente, “isolata” coincide con la negazione della sua verità, che riposa nel sapersi nell’eterno che si oppone al “divenire altro” di ciò che è. «Tuttavia – come si dice nella Prefazione dell’opera La terra isolata e la morte – la terra isolata dal destino [della verità] è oltrepassata dalla terra che salva e dalla Gloria». Al centro del destino di salvezza, che riguarda sia la terra sia gli umani, si colloca la negazione della “follia estrema” dell’Occidente, consistente nella persuasione che gli essenti escano dal loro non essere e vi ritornino, quindi che “il non niente sia niente”. Diversamente che in Heidegger, la non contraddittorietà dell’essere non consente la sua co- appartenenza con il non essere (co-appartenenza che sembra inerente allo stesso Seyn in quanto Nichtig e ambigua possibilità di essere e di non essere) e la esclude da ogni sua manifestazione. L’aporia che si presenta però nella “struttura” severiniana è la seguente: l’eterno è indisgiungibile da ciò che è, quindi anche da ogni ente in quanto non-niente, ma non appare. L’eterno non appare. Vale a dire: l’eterno che accompagna ogni apparire, e impedisce che il non ancora apparire e il non più apparire vengano ‘letti’ come un andare nel nulla, non appare, appunto perché ad apparire sono il non ancora apparire e il non più apparire in ciò che viene ad apparire. Insomma, se qualcosa appare, esso appare nella misura in cui comincia ad apparire e cessa di apparire. Fenomenologicamente allora l’eterno non appare o, meglio, ciò che appare non mostra in sé, in quanto semplice apparire, le credenziali dell’eterno.
Quanto al tema del dominio, sia da Heidegger sia da Severino esso viene associato alla tecnica. Il dominio della tecnica per il primo è dovuto alla riduzione dell’essere a semplice presenza e al calcolo oggettivante, mentre per il secondo è l’espressione ultima della persuasione della riduzione dell’essere al non essere. Si potrebbe anche dire che, mentre per Heidegger il dominio della tecnica comporta l’oblio e l’occultamento dell’essere, per Severino esso è il punto di arrivo della separazione dalla verità dell’essere in quanto protrarsi della contraddizione.
Si può tornare a Paolo, collocandolo sulle spalle di Heidegger e, soprattutto, di Severino. Nella prospettiva della fede, intesa come riconoscimento nella verità del limite dei contenuti da essa raggiungibili, l’eterno è ciò che si prende cura di ciò che appare e rende evidente che l’apparire non può essere separato dall’essere. Guardare la terra con gli occhi della fede – in quanto esigenza della verità – è perciò una risposta alla condizione di contraddizione in cui l’apparire, nel quale l’eterno non appare, è situato. Una tale risposta attinge nell’articolazione padre-figlio-spirito. L’essere “figli di Dio" risolve la condizione di separatezza. Nel “figlio di Dio’, che muore della morte dei figli della terra (figli dell’uomo), ogni umano è riconosciuto come aderente al Padre. Lo “spirito” è la manifestazione piena della in-separabilità.
Infine, in Paolo il tema del dominio è strettamente connesso al tema della morte. La radice prima del dominio è la sottomissione alla morte. Morte e schiavitù sono strettamente connesse. Il potere esercitato dalla morte è la matrice delle forme derivate di dominio e di potere. Nella narrazione paolina Gesù è il figlio che, per grazia del padre, rovescia il senso della morte mediante la sua morte nella carne e nel sangue, togliendole il potere di separare i figli dall’origine della vita. La morte che separa viene superata dalla morte che unisce. Il dominio viene estirpato alla radice. Il tempo, e ciò che in esso appare, viene conciliato con l’eterno. L’apparire ‘dia-bolico’ – separante – della morte viene trasceso nell’essere eterno; il dis-ordine della morte nell’ordo amoris.
Francesco Totaro è professore ordinario di “Filosofia morale” nell’Università di Macerata, di cui è stato a lungo prorettore. Ha insegnato presso la Scuola Superiore di Comunicazioni Sociali dell’Università Cattolica di Milano e presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Ha scritto saggi su Hegel, Weber, Scheler, Gramsci, Italo Mancini e Nietzsche, su temi di ontologia e metafisica, sul rapporto tra etica, economia e politica, sulla funzione ideologica della comunicazione.
La riflessione che intendo proporre parte dalla considerazione della crucialità del concetto di separazione, in quanto distanza tra ciò che chiamo, rispettivamente, essere per sé ed essere per noi. La separazione non indica semplicemente una distanza, ma anche una contraddizione, poiché è il sintomo più evidente del non apparire di ciò che invece dovrebbe apparire, vale a dire l’attualità della relazione pienamente manifesta tra l’Intero e le sue determinazioni (tra l’essere e gli essenti). È pure il caso di ricordare che il tema della separazione – Trennung – gode di una presenza elevata nella speculazione della filosofia idealistica – basti menzionare Hegel – e anche post- idealistica – per esempio Marx – dove si lega alle figure dell’alienazione e del dominio. Il legame della morte con la separazione e il dominio è a sua volta suscettibile di una esplorazione circolare, dal momento che l’esercizio del dominio si esprime spesso come potere di separazione e di morte, avendo al tempo stesso come propria radice la separazione e la morte.
Ho pensato di intrecciare le posizioni di Heidegger, Severino e Paolo di Tarso prendendo le mosse da quest’ultimo e, in particolare, dalla coppia concettuale separazione-inseparabilità entro cui egli inquadra la figura cristica (Rm 8,28-39) nella relazione con i chiamati alla sequela. L’inseparabilità si esprime nella persuasione di in-consistenza e di superamento di ogni evento apparentemente antitetico, soprattutto dell’evento-morte (uso il termine sebbene confiscato nel gelido frasario da compagnia di assicurazione).
Si può dire di una presenza significativa del tema della Trennung in Heidegger? Un criterio plausibile per rispondere alla domanda sarebbe l’accertamento della rilevanza della contraddizione nelle movenze fondamentali della sua filosofia. La condizione nella quale l’ente è senza l’Essere chiudendosi nella propria enticità – nella “gettatezza” e nell’”abbandono” dell’Essere in senso soggettivo e oggettivo – giunge in Heidegger ad assumere il pathos della separazione (il patire la separazione come contraddizione) oppure si risolve dapprima nella descrizione dell’analitica esistenziale e poi, con la figura dell’Ereignis, nella “fondazione” circolare di Essere ed esserci? Il “fendersi” che si apre nel salto nell’Essere in quanto evento è interpretabile come apertura di una separazione? Esperire “l’abisso come appartenente all’evento” è, ancora di nuovo, l’esperire della separazione? Che l’essere per la morte debba essere pensato “nella prospettiva della fondazione della verità dell’Essere”, e non come la messa a punto di una “filosofia della morte”, ha a che fare con il superamento di una separazione ri-conoscibile, superamento da ascrivere alla “permanenza dell’Essere” o alla Wesung come “essenziarsi” continuativo dell’Essere nell’esserci? Ma in forza di che cosa il superamento può avvenire? Forse, molto heideggerianamente, dovremmo arrestarci sulla soglia della domanda, non disponendo della leva della non contraddizione. Si può invece assumere che la concettualità heideggeriana, diversamente contestualizzata, sia feconda nel pensare la relazione tra Essere e ente una volta che sia stata superata la loro separazione grazie all’impiego del giudizio di attribuzione dell’essere all’Intero, preso concretamente con la totalità delle sue determinazioni. Nel ritmo oscillante di svelarsi-velarsi, darsi e ritrarsi, Heidegger ci può suggerire le categorie per una descrittiva della “storia” della relazione inscindibile tra Essere e ente, tra essere incondizionato ed essere condizionato, oltre la logica lineare di uno storicismo acritico e superficiale.
In Severino la Trennung è figura pregnante della contraddizione dello stare nel divenire senza sporgere rispetto alla sua interpretazione come risoluzione nel nulla. La terra separata o, più propriamente, “isolata” coincide con la negazione della sua verità, che riposa nel sapersi nell’eterno che si oppone al “divenire altro” di ciò che è. «Tuttavia – come si dice nella Prefazione dell’opera La terra isolata e la morte – la terra isolata dal destino [della verità] è oltrepassata dalla terra che salva e dalla Gloria». Al centro del destino di salvezza, che riguarda sia la terra sia gli umani, si colloca la negazione della “follia estrema” dell’Occidente, consistente nella persuasione che gli essenti escano dal loro non essere e vi ritornino, quindi che “il non niente sia niente”. Diversamente che in Heidegger, la non contraddittorietà dell’essere non consente la sua co- appartenenza con il non essere (co-appartenenza che sembra inerente allo stesso Seyn in quanto Nichtig e ambigua possibilità di essere e di non essere) e la esclude da ogni sua manifestazione. L’aporia che si presenta però nella “struttura” severiniana è la seguente: l’eterno è indisgiungibile da ciò che è, quindi anche da ogni ente in quanto non-niente, ma non appare. L’eterno non appare. Vale a dire: l’eterno che accompagna ogni apparire, e impedisce che il non ancora apparire e il non più apparire vengano ‘letti’ come un andare nel nulla, non appare, appunto perché ad apparire sono il non ancora apparire e il non più apparire in ciò che viene ad apparire. Insomma, se qualcosa appare, esso appare nella misura in cui comincia ad apparire e cessa di apparire. Fenomenologicamente allora l’eterno non appare o, meglio, ciò che appare non mostra in sé, in quanto semplice apparire, le credenziali dell’eterno.
Quanto al tema del dominio, sia da Heidegger sia da Severino esso viene associato alla tecnica. Il dominio della tecnica per il primo è dovuto alla riduzione dell’essere a semplice presenza e al calcolo oggettivante, mentre per il secondo è l’espressione ultima della persuasione della riduzione dell’essere al non essere. Si potrebbe anche dire che, mentre per Heidegger il dominio della tecnica comporta l’oblio e l’occultamento dell’essere, per Severino esso è il punto di arrivo della separazione dalla verità dell’essere in quanto protrarsi della contraddizione.
Si può tornare a Paolo, collocandolo sulle spalle di Heidegger e, soprattutto, di Severino. Nella prospettiva della fede, intesa come riconoscimento nella verità del limite dei contenuti da essa raggiungibili, l’eterno è ciò che si prende cura di ciò che appare e rende evidente che l’apparire non può essere separato dall’essere. Guardare la terra con gli occhi della fede – in quanto esigenza della verità – è perciò una risposta alla condizione di contraddizione in cui l’apparire, nel quale l’eterno non appare, è situato. Una tale risposta attinge nell’articolazione padre-figlio-spirito. L’essere “figli di Dio" risolve la condizione di separatezza. Nel “figlio di Dio’, che muore della morte dei figli della terra (figli dell’uomo), ogni umano è riconosciuto come aderente al Padre. Lo “spirito” è la manifestazione piena della in-separabilità.
Infine, in Paolo il tema del dominio è strettamente connesso al tema della morte. La radice prima del dominio è la sottomissione alla morte. Morte e schiavitù sono strettamente connesse. Il potere esercitato dalla morte è la matrice delle forme derivate di dominio e di potere. Nella narrazione paolina Gesù è il figlio che, per grazia del padre, rovescia il senso della morte mediante la sua morte nella carne e nel sangue, togliendole il potere di separare i figli dall’origine della vita. La morte che separa viene superata dalla morte che unisce. Il dominio viene estirpato alla radice. Il tempo, e ciò che in esso appare, viene conciliato con l’eterno. L’apparire ‘dia-bolico’ – separante – della morte viene trasceso nell’essere eterno; il dis-ordine della morte nell’ordo amoris.
Francesco Totaro è professore ordinario di “Filosofia morale” nell’Università di Macerata, di cui è stato a lungo prorettore. Ha insegnato presso la Scuola Superiore di Comunicazioni Sociali dell’Università Cattolica di Milano e presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Ha scritto saggi su Hegel, Weber, Scheler, Gramsci, Italo Mancini e Nietzsche, su temi di ontologia e metafisica, sul rapporto tra etica, economia e politica, sulla funzione ideologica della comunicazione.