Gilles Lipovetsky. Il rapporto tra arte e mercato

La vittoria del capitalismo


Il filosofo francese Gilles Lipovetsky, studioso delle trasformazioni della società contemporanea, intervistato al Festival della Filosofia di Modena-Arti del 2017, parla della nascita del capitalismo-artista. 

Il capitalismo-artista ha inglobato la dimensione dell’arte nelle sue produzioni, nei suoi luoghi commerciali, e nel contempo ha mutato il rapporto fra arte e mercato. La rottura si è consumata con Andy Warhol. Sino ad allora l’arte e il commercio erano due universi separati. Con Andy Warhol cambia qualcosa: gli artisti non si oppongono più al mercato, non hanno più un atteggiamento di totale rifiuto nei confronti del successo commerciale, come invece accadeva all’epoca di Baudelarie, per esempio.
Perciò, oggi il capitalismo-artista è quello in cui l’arte si adegua sempre di più alle leggi di mercato. Basti pensare all’evoluzione dei musei. Prima i musei non erano vincolati da dettami commerciali. Oggi sì. Oggi si investe nei musei. E perché? Perché sono degli strumenti di promozione delle città: permettono di attirare il turismo, il turismo culturale. All’interno dei musei ci sono dei negozi che vendono prodotti derivati, ci sono bar e ristoranti. Esistono dei dettami commerciali ben precisi collegati alla gestione di un museo.

L’epoca degli artisti maledetti è ormai terminata, oggi gli artisti all’avanguardia sono sulle copertine delle riviste e guadagnano una fortuna. Il mercato dell’arte contemporanea è esploso con quotazioni in continua ascesa, con dei collezionisti che speculano sulle opere d’arte.
Il grande vincitore in tutto questo è palesemente il capitalismo. Un tempo c’erano dei continenti, dei settori che gli opponevano resistenza. Mi riferisco, per esempio, allo sport o all’arte, ma oggi lo sport e l’arte non sono più dei feroci detrattori del capitalismo. Il capitalismo è riuscito a far sì che i luoghi artistici si adeguino ai principi aziendali. La dinamica o, meglio, la logica economica si è introdotta in tutti i settori: si parla di “arte-business”, di “sport-business”. In altre parole, è il business che ha la meglio ovunque.


Ma dire che il business abbia la meglio ovunque non vuol dire che non ci sia più una produzione artistica. Non significa che l’arte sia morta, è semplicemente un modo diverso di regolare l’arte.  Se prendiamo l’esempio del cinema, il cinema è un’arte commerciale, ma nell’ambito di quest’arte commerciale ci sono delle realizzazioni eccellenti e creative. Naturalmente, non tutto è della stessa fattura; ma il denaro, il business non ostacolano per nulla l’esistenza della cultura e della diversità. Personalmente sono addirittura convinto che oggigiorno il cinema sia in grado di produrre delle opere, dei film molto più vari che in passato, quando dominavano molti stereotipi: oggi ci sono dei film che presentano degli argomenti molto diversi gli uni dagli altri, dei film che, benché realizzati con budget limitati in Paesi non molto ricchi, producono cose di qualità, cose artistiche. Per questo motivo, non condivido la convinzione che il business comporti la morte dell’arte. Si tratta piuttosto di una regolamentazione diversa.

Gilles Lipovetsky è professore all’Università di Grenoble. Studioso delle trasformazioni della società contemporanea, si è occupato di recente della «estetizzazione del mondo» e del «capitalismo artista», discutendo le implicazioni della democratizzazione dei parametri estetici nella vita sociale. Tra i suoi libri: Il tempo del lusso (Palermo 2007); Una felicità paradossale. Sulla società dell’iperconsumo (Milano 2007); Il tempo del lusso (Palermo 2008); La cultura-mondo. Risposta a una società disorientata (Milano 2009); L’era del vuoto. Saggi sull’individualismo contemporaneo (Milano 2013).