Ernesto de Martino e le apocalissi
Domenico Conte
Nel maggio del 1964, a pochi mesi dalla morte prematura, Ernesto De Martino prendeva parte a un convegno su «Il mondo di domani», presentando una relazione dal titolo provocatorio «Il problema della fine del mondo», nella quale affermava che il mondo, che è un mondo umano, non dovrebbe finire, ma che tuttavia può finire, e proprio per colpa dell’uomo, della tecnica.
Il mondo può finire, e non tanto nel senso naturalistico di una catastrofe cosmica che può distruggere o rendere inabitabile il pianeta Terra, ma proprio nel senso che l’umana civiltà può autoannientarsi, perdere il senso dei valori intersoggettivi della vita umana, e impiegare le stesse potenze del dominio tecnico della natura secondo una modalità che è priva di senso per eccellenza, cioè per annientare la stessa possibilità della cultura.
Ernesto de Martino
Il comune denominatore dei libri di De Martino è la crisi, la «crisi della presenza», la crisi del sé, che, partendo dal singolo, si slarga in più ampie dimensioni. Si esce fuori di sé, ci si perde. Si innescano processi di depersonalizzazione e addirittura di de-realizzazione. Si perde la realtà, il contatto con essa con l’incubo di precipitare nel baratro della follia.
De Martino sceglie di studiare le «apocalissi culturali» che sono sistemi ideologici che pensano sì la fine del mondo, ma anche la nascita di un mondo nuovo, l’apocalittica del primo Cristianesimo, l’apocalittica marxista e quella terzomondista.
L’apocalittica non è «nientificazione» ma «svelamento», è l’apocalittica «con riscatto», ma anche l’apocalittica «senza riscatto», senza nessun mondo nuovo. De Martino individua due apocalissi senza riscatto, l’apocalisse «psicopatologica» e l’apocalisse d’Occidente, del mondo borghese, strettamente legate fra di loro dalla follia.
… attraverso le arti e la letteratura la tematica di una apocalittica senza escaton si manifesta con tutta l’ampiezza di un fatto di costume, che chiede di essere analizzato. La “nausea” di Sartre, l’”assurdo” di Camus, la moraviana “malattia degli oggetti”, il teatro di Beckett non riflettono soltanto questo particolare costume apocalittico della nostra epoca, ma il “successo” di questi prodotti letterari testimonia in quale misura essi trovino rispondenza nella disposizione degli animi, e quindi come sia diffusa la sensibilità cui si richiamano. Ad un altro livello culturale, la letteratura fantascientifica euroamericana, così ricca di oscure profezie sociali e di presagi di degenerazione e di estinzione, dell’uomo e del suo mondo, di regresso nell’informe, rende a sua volta testimonianza di come il tema di una apocalittica senza escaton abbia acquistato il carattere di un orientamento in certa misura collettivo, giovantesi fra l’altro, per diffondersi, di tutta la potenza dei cosiddetti mezzi di comunicazione di massa.
Ernesto de Martino
In questo naufragio c’è anche la tecnica, il Titano Tecnica e non è un caso che il Titanic si chiami proprio così, e che sia affondato.
De Martino non è un nemico della tecnica in sé e per sé, ma, come Jaspers, è un nemico del tecnicismo, della feticizzazione della tecnica.
La scienza e la tecnica compiono prodigi, certamente, però la tecnica alimentata dalla scienza può essere distruttiva e autodistruttiva fino a portare nell’incubo della distruzione tecnica del pianeta. È lo spettro della guerra nucleare, incombente negli anni di gestazione della Fine del mondo, caratterizzati dall’atmosfera plumbea della guerra fredda.
Oggi allo spettro della guerra nucleare si è aggiunto quello della catastrofe ecologica e basta guardarsi intorno, per imbattersi in fenomeni inquietanti come la massificazione, la globalizzazione, la trivializzazione e banalizzazione della cultura, l’imbecillimento della vita, la pubblicità, l’iperturismo e la rivoluzione informatica, una vera mutazione non solo tecnica ma anche antropologica, tale che neanche un grande antropologo come De Martino poté presagire.
Forse è più giusto dire che, invece che alla fine del mondo, siamo «al muro del tempo», ovvero su di un crinale decisivo della storia, come sospesi, da una parte il baratro della distruzione, dall’altra lo squarcio su di una nuova strada, una strada in costruzione, dove l’evoluzione spirituale sia in grado finalmente di raggiungere lo sviluppo tecnologico. La storia ci si mostra di nuovo col suo volto di Giano in una modernità come sospesa tra distruzioni e nuovo slancio, perché può esserci la «fine del mondo» ma anche l’avvento di un mondo nuovo, dove – è il nostro auspicio – l’Europa non giocherà soltanto la parte di una civiltà sull’orlo della follia.
Domenico Conte è professore ordinario di Storia della filosofia nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, dove attualmente insegna Filosofia e storia della cultura e coordina il Corso di dottorato in Scienze Filosofiche. È membro dell’Accademia Pontaniana e dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche, di cui è stato per due mandati Presidente. È stato anche Presidente Generale della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli. Domenico Conte è studioso della storia della cultura italiana e tedesca fra Otto e Novecento. Fra le sue pubblicazioni si ricordano: Viandante nel Novecento. Thomas Mann e la storia (2019); Primitivismo e umanesimo notturno. Saggi su Thomas Mann (2013); Albe e tramonti d’Europa. Su Jünger e Spengler (2009); Storia universale e patologia dello spirito. Saggio su Croce (2005, trad. tedesca 2007), per il quale ha ricevuto il «Premio Federico Chabod» dell’Accademia dei Lincei; Introduzione a Spengler, 1997 (trad. tedesca 2004); Catene di civiltà. Studi su Spengler, 1994.