Paolo Di Paolo: La bella estate di Cesare Pavese

La scoperta della lettura

Lo scrittore Paolo Di Paolo: "Intorno ai tredici, quattordici anni ho scoperto Cesare Pavese. La bella estate è un libro su come si perde la verginità, non nel senso fisico, ma in un senso più astratto, su come veniamo ad avere notizie del mondo nella sua parte più torbida, che ci fa crescere, ma ci toglie l'incanto". Il romanzo La bella estate di Cesare Pavese è stato pubblicato per la prima volta nel 1949 da Einaudi. Per il trittico di romanzi comprendente La bella estate, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, Cesare Pavese vinse il Premio Strega nel 1950. L'icipit de La bella estate:

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte, e tutto era bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che succedesse qualcosa, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all'improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline.


Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 1908 – Torino, 1950), è stato poeta, scrittore, saggista, traduttore e critico letterario, fu senz'altro uno dei più importanti autori e intellettuali della storia della letteratura italiana. Pavese era nato il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo. Ben presto la famiglia si trasferisce a Torino ma le colline del suo paese rimarranno per sempre impresse nella sua anima, assieme al ricordo del padre, che muore molto presto. Negli anni del liceo Pavese è assai riluttante ad impegnarsi attivamente nella lotta politica, verso la quale non nutre grande interesse, anche perché tende a fondere sempre il motivo politico con quello più propriamente letterario. A ventidue anni si laurea con una tesi su Walt Whitman e comincia a lavorare alla rivista La cultura, mentre si intensifica la sua attività di traduttore. La morte della madre avvenuta nel 1931 lo scuote e lo segna profondamente. Nel 1933 Pavese partecipa alla nascita della casa editrice Einaudi, grazie all’amicizia che lo lega a Giulio. Nel 1935 la relazione con una donna impegnata nella lotta al fascismo – “la donna dalla voce rauca”, come chiamava l’amore entrato nella sua vita dagli ultimi anni degli studi universitari – gli costerà l’accusa di sospetto antifascismo e la condanna al confino. Al suo rientro, nel 1936, la donna ha già sposato un altro. La delusione lo sprofonda in una crisi tale da indurlo a meditare il suicidio. Finita la guerra, Pavese si iscrive al partito comunista, ma il suo impegno è prevalentemente letterario: scrive articoli di ispirazione etico-civile, riprende il lavoro per la Einaudi, elabora quella teologia del mito che prenderà corpo nei Dialoghi con Leucò. Intanto, a Roma, conosce l’attrice Constance Bowling, che rinnoverà in lui prima il sentimento dell’amore, poi il dolore dell’abbandono. Pavese scrive Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Alla delusione d’amore, alle crisi politiche e religiose che riprendono a sconvolgerlo, alla nuova ondata di solitudine e di senso di vuoto non riesce più a reagire. Logorato, stanco, ma in fondo perfettamente lucido, si toglie la vita in una camera dell’albergo Roma di Torino ingoiando una forte dose di barbiturici. Solo un’annotazione, sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, sul comodino della stanza: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.