Il viaggio di Ivano Fossati
Intervista di Stas' Gawronski
I miei viaggi hanno influito molto e continuano ad influire. Tutto quello che ho visto, le persone che ho incontrato si è sedimentato nei testi delle canzoni. Credo che questo sia naturale e sono convinto che per scrivere qualcosa di sensato bisogna aver visto o aver vissuto qualcosa di sensato o di interessante.
In Mio fratello che guardi il mondo la tua attenzione è sui viaggi degli altri. Com’è nata questa canzone?Sono più che certo che se avessi passato l’esistenza dentro casa o se avessi vissuto in maniera più sedentaria non sarei riuscito a scrivere probabilmente neanche una parola.
Mio fratello che guarda il mondo, per quello che ricordo, è nata dall’osservazione di questo grande esodo del sud del mondo verso il nord ricco, ma anche contemporaneamente dal ricordo del nostro passato, di come la il destino della nostra gente sia stato simile, di come quella disperazione che oggi vediamo così enfatizzata dalla stampa, dai telegiornali (e che ci terrorizza in certi momenti) sia la stessa disperazione dei primi del ’900 o di altre epoche, quando erano i nostri i disperati della terra.
"Mio fratello” perchè in fondo l'umanità di queste persone non è molto diversa da quella di ognuno di noi?
Sì, sono uno specchio. Non soltanto in un'accezione cristiana ma anche laica e materiale. Come una specie di inevitabilità.
Sono la nostra realtà e quindi non possiamo nasconderci dietro esili paraventi, non ce lo possiamo permettere.Non abbiamo altra scelta secondo me che riconoscere gli altri, qualsiasi direzione prendano, sia che vengano verso di noi sia che stiano partendo.
Cosa ti ha affascinato del personaggio e del viaggio straordinario di Lindberg?
Lindberg è un personaggio storico, a modo suo anche discusso. A me è piaciuta la parte che si potrebbe anche definire superficiale: l’atto estremo compiuto in solitudine con una grande preparazione, senza nessun tipo di avventatezza, come qualcosa che avrebbe dovuto essere compiuto comunque. Quella traversata atlantica, se non lo avesse compiuta Charles Lindberg, l’avrebbe compiuta qualcun altro poco dopo. In quel momento della storia era qualche cosa che sarebbe accaduto comunque, ma è accaduto ad opera di Lindberg. A me è piaciuta la solitudine dell’impresa, la preparazione e anche un po’ il distacco della figura mitica dalla sua vicenda umana e privata. C'è perfino un distacco quando io penso a Lindberg o alla mia canzone: è come se pensassi a qualcun altro al di la della persona fisica e storica.
Questa canzone ha un forte valore metaforico. Credo che molte persone la amano perchè si identificano fortemente in questo personaggio che si stacca da terra ed ha il privilegio di guardare il mondo dall’alto, rimanere in una condizione di solitudine e allo stesso tempo puntare a una meta ideale...
C’è una meta ideale. Avrebbe potuto essere la figura di un alpinista, avrebbe potuto essere la figura di uno dei primi astronauti, oppure di uno di questi navigatori solitari. È la conquista di uno spazio di riflessione che un uomo compie in qualche modo anche per tutti gli altri. A noi rimane il desiderio, pochi lo hanno provato, di questo momento unico di meravigliosa solitudine. A noi in qualche modo basta vederlo da lontano, basta sognarlo.
Il volo ricorre nelle tue canzoni, ma non si può volare senza una direzione. Voglio dire che mentre in macchina possiamo girare per la città e andare dove ci pare, col volo questo non lo possiamo fare. Dobbiamo avere per forza un punto di riferimento altrimenti ci perdiamo...
Un piano di volo ci vuole e questa è la limitazione, questo è il paradosso. Questa estrema libertà che noi associamo al volo, all’essere soli nell’aria, probabilmente come punto massimo raggiungibile di un senso di libertà, in realtà ha bisogno di coordinate ben precise.
C'è chi viaggia e non si ferma mai, come Bob Dylan. E chi nel suo viaggio punta in una direzione perché ha un progetto, una destinazione. Qual è invece il tuo viaggio?Siamo probabilmente più liberi a terra dove abbiamo più modo di mettere in atto le nostre piccole o grandi follie, i nostri errori di rotta.
Io sono attratto da un altro genere di viaggio, quello di chi si disperde. Io sono assolutamente affascinato dagli scrittori, dalle persone comuni e reali, dai registi di cinema, che raccontano di disperdimenti e di disorientamenti. Perché mi pare che la vita comune sia più vicina a questa dimensione, cioè si caratterizzi molto più spesso per una mancanza di rotte, di piani di volo. Ho conosciuto ben poca gente che avesse un piano di volo, un cammino ben prestabilito nel suo spirito, nella sua mente o semplicemente nei suoi programmi. Ho conosciuto moltissima gente intelligente, rispettabile e attiva che però si sperde e mi piace. Questo è una sorta di paradosso e di mistero che mi piace molto.
Ne I treni a Vapore il viaggio è "di dolore in dolore". Esiste una parola fine a questo dolore? Esiste un approdo?
No, credo che non esista la parola fine ai dolori della gente. Ma è per questo che esistono le canzoni, specialmente le canzoni antiche, le canzoni popolari alle quali Treni a vapore si ispira, che servivano a lenire almeno temporaneamente, a illudere che i dolori avessero fine. Moltissima della letteratura popolare contenuta nelle canzoni tradizionali è di questo tipo, spinge ed esorta a credere che il dolore ha un tempo e un termine, per fortuna.
Un'altra canzone affascinante è La Volpe dove c’è il viaggio di qualcosa che viene verso di noi, qualcosa di ignoto che potrebbe essere anche buono...C’è un detto popolare della Cina settentrionale che dice “Non può fare vento per troppi giorni”, lo sapevano i contadini cinesi secoli fa e lo sapevano i nostri contadini lombardi o emiliani anche nel secolo scorso. Ci deve essere qualcosa di vero.
La volpe è una canzone scritta su ciò che è incognito, su quello che può farci paura o invece può suscitare la nostra attesa, su quello che non sappiamo. Il punto di vista di chi sta fermo cambia molto. È un punto di vista più fragile, emotivamente più a rischio. È molto più facile interpretare la parte di chi arriva piuttosto che di chi aspetta. Chi aspetta si pone molte domande. La volpe è proprio questo, sta arrivando qualche cosa, che è un ombra, ma può essere un’ombra buona, una bella sorpresa, che dal fondo del viale della tua casa si manifesterà. Io preferisco pensare cosi e quando ho scritto la canzone preferivo pensare a qualcosa di buono: un sentimento, l’amore, qualcosa che si rinnova. Il contenuto della canzone per me è quello, ma mi rendo conto che, avendola lasciata aperta, possa essere interpretata in un altro modo. Racconto il silenzio dell’attesa. La sospensione che precede uno stupore di qualche tipo.
Se penso a Discanto, invece, penso al volo e alla distanza che serve per guardare la nostra Italia, per vedere noi come siamo fatti. Come nasce una canzone dal testo e dal sound cosi forte e potente?
Discanto è una sorta di inventario di quello che può essere e non può essere, di quello che si può desiderare e di quello che è venuto a colpirci, delle ore e dei mesi e degli anni passati in un modo oppure in un altro. Discanto, anche musicalmente, è costruita a gradini su un’armonia molto semplice, ma che sale di intensità. E questo serve proprio a fare in modo che la canzone abbia un suo culmine e che poi ridiscenda un’altra volta per qualche considerazione finale. Ma ciò che conta non è la considerazione finale, ma il frastellamento di quello che avviene, che probabilmente era quello che avveniva a me negli anni intorno al 1990. Io in definitiva tendo a scrivere ciò che vedo e quindi probabilmente c’è un po’ della mia realtà di allora.
Discanto è forse l’inventario degli ingredienti in cui ci si perde?
Sì, sono proprio quelle piccole luci o bandiere che ci guidano o disorientano, in certi casi felicemente in certi casi meno. Discanto è proprio questo, l’archivio di un angolo della mia. Ma certamente non solo della mia vita, di qualcosa che tutti possiamo ricordare, di qualcosa che ci è accaduto, qualcosa che abbiamo anche semplicemente sfiorato.
In Ho sognato la strada parli di un male da cui ci si vuole salvare: è solo un male sociale? O c’è un male più intimo, comune a tutti gli uomini, e attraverso "la parola dell'angelo di Dio" puo' giungere una risposta interiore e personale, diversa dalla risposta politica e sociale ai mali che affliggono il mondo?
Forse quel che c’è di più intimo in Ho sognato la strada è questo: il protagonista della canzone, che non sono io, è quel signore che in qualche foresta, come lui racconta, aspetta l’angelo che lo venga a salvare. Dice: "viene a salvare me", non dice "salva l’umanità". Cerca una salvezza per se stesso, ad esempio, dalle guerre, da una diplomazia che non ha voluto funzionare, da quello che sappiamo e che viviamo in questi anni. Mi riferisco alle guerre in atto soprattutto. È talmente stanco da dimenticare gli altri. Il senso della canzone è: ritorno ad essere solo, cerco una salvezza solo per me stesso. In qualche modo è un segnale terribile, perché quest'uomo pensa soltanto a se stesso, ha compiuto tutto l’arco dei sentimenti, di quelle che ritiene le possibilità sue e del mondo che ha intorno e come racconta nella canzone si costruisce una casa in mezzo ad una foresta che non sappiamo bene quale sia e aspetta una salvezza. Ma non sappiamo bene se lui lo aspetti come avamposto per poter alzare una mano anche per segnalarlo agli altri o se aspetti una salvezza soltanto per se stesso. Credo e temo che l’aspetti solo per se stesso.
È anche vero però che c’è un momento nella vita in cui veramente siamo soli e non possiamo fare altro che implorare una salvezza intima e personale. Penso, ad esempio, al momento della morte, quando gli altri non possono fare niente e, per quanto affetto si possa avere intorno, nessuno ci può salvare...
Nel caso di Ho sognato la strada certamente è il momento della disperazione, ma per fatti che con la morte non hanno a che fare. È una canzone molto energica anzi, è il racconto di un uomo che ha perso molte molte delle sue speranze e non cerca nemmeno di salvare se stesso ma di aspettare chi lo salvi, che è ancora meno.
Quali autori della letteratura hanno influenzato il tuo modo di scrivere?
Tutti questi grandi scrittori hanno una caratteristica comune: sono sempre stati in grado di trasmettere, soprattutto ai lettori della mia generazione, grandi sentimenti, grandi intrecci umani, ma sempre corredati da enormi spazi e grandi respiri. Anche nel caso di Pavese c'e' sempre uno scenario amplio, cosa che oggi con grande difficoltà trovo, soprattutto nella letteratura del nostro paese. Oggi mi piacciono alcuni cinesi come Mo Yan che hanno ancora questa caratteristica di raccontare cose a noi lontane, che non conosciamo, lasciando sempre un grande respiro. Come se dietro la parola l’occhio potesse sempre percepire lo spazio intorno. Sono questi che mi hanno aiutato e insegnato a scrivere certe cose e riconosco in loro, in quelli che ho nominato fino a Saramago e a certi autori dell’estremo oriente. Ecco io riconosco loro questa caratteristica. Inconsciamente ho fatto costantemente la scelta di letture di questo tipo, che avessero, come io dico, una sorta di abbraccio ampio alla vicenda raccontata.Gli autori che hanno influenzato la mia scrittura sono quelli che amavo da ragazzo e che amo ancora adesso. Quelli che non ho voluto studiare per imparare a scrivere canzoni, quelli che in maniera naturale io amavo e verso i quali in maniera naturale mi rivolgevo: Fenoglio, Pavese, Cassola e poi i russi Tolstoj , Cechov, Goncharov, Leskov, i latino-americani.
Questo ampio abbraccio è il mistero nel quale siamo immersi? Io credo che molte persone amano le tue canzoni perchè questo spazio enorme si percepisce. Ma che è, allo stesso tempo, un grosso punto di domanda: che ci facciamo qui? Verso dove stiamo volando? Dove atterreremo? Queste domande ricorrono di solito nella grande letteratura, ma anche nelle tue canzoni...
Sono d’accordo e faccio fatica ad essere d’accordo. Sarei molto felice di sapere che le persone amano e ascoltano le mie canzoni per questa caratteristica dello spazio. I musicisti colti insegnano che tanto importante è la musica quanto importante è il silenzio, almeno nella grande musica seria. Questo non toglie che possa essere vero in parte anche per chi scrive canzoni.
So che c'è molto pubblico che questo fortunatamente lo percepisce con facilità. Ci sono cose dette e altre non dette, se impariamo a dare peso anche a quello che non si dice non è male. Non dico nelle mie canzoni, anche nella lettura di un bel libro. Ci sono cose che i grandi e bravi autori lasciano li appese, lasciano a te il compito di percepire in un modo o in un altro. Non si può dire tutto. Ma quella è la grande letteratura. Anche nel caso delle canzoni di Dylan, per esempio che è un letterato e non soltanto un musicista. Di non detti nella sua scrittura ce ne sono eccome.Ci sono cose dette nelle canzoni ma in qualche caso è più importante il non detto, quello che è lasciato sospeso.
Ci sono canzoni che tu salveresti se fra mille anni qualcuno volesse leggere i testi delle canzoni di Fossati?
Questo è veramente un colpo basso. Fra mille anni mi sembra una posta parecchio alta. Io sarei già onorato se potessi sapere che le mie canzoni si ascolteranno tra dieci o venti anni. Tra le canzoni più recenti c’è una che si intitola Il battito e, per carità, non penso assolutamente che possa essere ascoltata tra 1000 anni, ma credo che un’autonomia di 10 o 15 anni ce la dovrebbe avere. Contiene qualche cosa che mi è più caro. Mi è capitato come capita a tutti gli autori, di scrivere cose che ti sono più care perché in quel momento della scrittura sei stato effettivamente toccato e sfiorato da un’intuizione più profonda, più centrata, di quelle che non capitano sempre. È giusto che siano rare ed è giusto che nella produzione di un autore, a volte di centinaia di canzoni, quelle di quel tipo siano anche poche. È giusto così.
È vero che la tua collaborazione con Fabrizio è nata da un viaggio che avete fatto insieme?
Si è verissimo. La collaborazione che riguarda Anime Salve è partita da un viaggio. Una sera da Milano, in macchina, veramente in quel caso senza sapere dove andare. Non avevamo programmato nulla, sapevamo solo di voler andare al sud, verso la Basilicata, perché eravamo convinti - Fabrizio moltissimo ma anche io - che li avremmo potuto raccogliere delle storie, delle impressioni, parlare con delle persone semplici senza sovrastrutture, senza difficoltà. Ed in effetti fu cosi. Restammo li qualche giorno e con grandissima facilità incontrammo gente con cui parlare. Poi credo che di vicende e di storie che siano finite nelle canzoni ci sia ben poco, ma ugualmente il viaggio fu importante perché comunque, anche se non ricavammo il materiale in materia stretta, ricavammo il modo di raccontarle. In quei giorni era come se ci fossimo sintonizzati su un onda. Invece di metterci a tavolino e fare tanti progetti un po’ freddi, andare da quelle parti, stare insieme noi due e parlare con quelle persone fu come aver creato un codice di scrittura. Come dire: scriveremo storie come queste oppure parleremo in questo modo, ma non ce lo siamo nemmeno detto perché non serviva.
Avete compiuto un gesto di umiltà nei confronti della realtà.
La realtà non si inventa, non è una fiction o un film dove hai bisogno di ricreare gli scenari. La realtà si va ad impararla. Anche tra poco quando usciremo di qui e saremo immersi nel traffico, qualcosa impareremo. Ancora di più in quel caso si andava a reimparare un modo di pensare di persone semplici, di persone che vivono in campagna di contadini, di piccoli grandi codici di comportamento che vivendo nelle grandi città abbiamo un po’ dimenticato e perduto.
C’è una canzone che secondo te identifica più fortemente il tuo modo di vivere il viaggio?
Che identifichi il viaggio non è soltanto una canzone ma, se ne devo dire una, mi viene in mente Una notte in Italiaperché è una canzone di un momento. Non è un racconto, non c’è una vicenda, non c’è un intreccio. È un impressione, sono una o due ore di una notte di tanti anni fa. Quindi è un passaggio, è una canzone che si muove. Credo che possa essere un discreto esempio, certo non l’unico.