Canto 11 – Ex voto
Purgatorio
Sacrificio Tumulto Costellazioni mostra di Antonio Biasucci - Villa Pignatelli
Antonio Biasucci (Caserta 1961) è uno dei più interessanti fotografi della scena artistica napoletana e internazionale. Presenti nella mostra le tematiche che caratterizzano il suo trentennale percorso artistico, si parte da visioni tratte dal mondo contadino, si attraversano le periferie urbane, fino ad arrivare ad una meditazione per immagini sul mistero dell’esistenza.
Sinossi a cura di Aldo Onorati
È questo uno dei canti più belli del Purgatorio.
È lunedì 11 aprile, nell’alta mattinata.
L’esordio consiste nel “Padre nostro” cantato dalle anime che vanno sotto il pondo. La preghiera ricalca quella di Cristo, ma sono presenti lacerti di commento, come quello della chiusa: “Signore, noi non preghiamo per noi stessi, ma per gli uomini che dietro a noi restaro”: le regole egoistiche del mondo sono qui sovvertite, capovolte, come vedremo nel prosieguo del canto.
Le anime, “disparmente angosciate” e stanche, camminano sulla prima cornice “purgando la caligine del mondo”. Ora, Dante si chiede, una volta tornato sulla Terra, mentre scrive e racconta: “Se in Purgatorio si prega sempre per noi viventi, cosa possiamo fare a loro favore? Dobbiamo aiutarli a purgare le macchie del peccato, sicché possano salire al Cielo”. È la comunione dei Santi (Dante riprende in modo diverso, ma ribadendolo, il concetto espresso da Manfredi nella chiusa del terzo canto).
Bisogna sapere da quale parte andare per salire alla cornice successiva. Virgilio lo chiede alle anime che procedono lente, augurando loro che la pietà e la giustizia divina presto li liberi dal peso che li trattiene in Purgatorio, onde salire in Paradiso; e dichiara che il suo compagno di viaggio “si veste ancora della carne d’Adamo” e quindi il suo corpo, ancora corruttibile, gli rende difficoltoso il pendio.
La risposta non fu chiaro da chi venne pronunciata: “Procedete con noi a destra via via a fianco della parete (in Inferno, invece, si camminava sempre prendendo a sinistra), e troverete un passo adatto a una persona viva”. Ma la spiegazione non si ferma qui: anzi, ora viene l’interessante, collegato nei personaggi che, nella sostanza, denunciano il grave peccato della superbia, la propria vanità, dimostrando con l’espiazione del peccato la stoltezza della loro vita, e aggiungendo a questo altri esempi di uomini illustri per poco tempo, ed ora superati da nuovi ingegni, da nuovi potenti. Chi parla è Omberto Aldobrandeschi, di famiglia presuntuosa data la nobiltà e l’antichità del sangue, l’opulenza, la fortuna in armi. “Io fui italiano (Dante usa sempre o quasi il vocabolo “latino” anche nel significato di “chiaro nell’esposizione di un pensiero”), figlio di un grande Toscano, ma non so se voi lo conoscete per fama. Io disprezzai ogni uomo, non pensando alla madre comune, la Terra, che ci nutre e ci ricopre dopo la morte, tutti, indistintamente. Fu l’arroganza che mi condusse a morte. E non solo io ho sofferto di questo male, bensì l’intera mia famiglia. Così, debbo portare questo peso per rimettermi nella grazia di Dio”.
Dante si china per guardare in volto Omberto (il curvare il capo è un segno allegorico, oltre che di necessità fisica per vedere chi si cela sotto il masso: è un espediente che troveremo spesso nella narrazione, quale, ad esempio, nel colloquio con Brunetto Latini, XV dell’Inferno, in cui l’Alighieri, camminando sul rialzo che lo protegge dalla pioggia di fuoco, si china all’altezza del maestro: e non solo per ascoltarlo meglio…); e proprio dalla fila dei penitenti, uno di essi a fianco dell’Aldobrandeschi, si torceva sotto il peso che lo impacciava, perché aveva riconosciuto Dante, e lo chiamava, tenendo a fatica gli occhi fissi sul pellegrino che procedeva “chino” con – e come – loro. Ma il Poeta si apre in un’esclamazione di stupore, perché anch’egli riconobbe l’anima che lo guardava con meravigliato interesse (il verso 76, fortemente paratattico, denuncia un’ansia, una fretta di parlare: il tempo, nel viaggio ultraterreno concesso da Dio a un uomo, è prezioso al pari di quanto dovrebbe esserlo nel mondo, e forse di più, sebbene gli uomini lo sprechino non considerando il suo valore altissimo e irripetibile). “Oh, non sei tu Oderisi, l’onor di Gubbio e della miniatura?”, dice Dante; e l’artista, davvero grande nel suo campo, sposta la lode sul suo allievo Franco Bolognese, le carte miniate del quale “più ridon”, per cui l’onore è tutto suo e mio in parte”. Poi aggiunge, spiegando tanta generosità di riconoscimenti: “Da vivo non sarei stato così prodigo, a causa della volontà di essere superiore agli altri. Di tale superbia qua si paga la pena, e non sarei qui, credimi, se non mi fossi pentito in vita, quanto avevo ancora tempo e occasione di peccare”. Ed ecco la parte centrale del canto: la condanna aperta della vanagloria umana che è nulla di fronte all’eternità e a Dio. Il successo è come le foglie sulle estreme propaggini dei rami, le quali, seccando, indicano la decadenza mortale dell’albero (dura poco, a meno che non segua un periodo barbarico).
Oderisi porta nomi e fatti inconfutabili: “Cimabue credette di essere il più grande nella pittura, e invece ora il grido di gloria è per Giotto, il quale ha oscurato la fama del maestro. Alla stessa maniera Guido Cavalcanti ha tolto a Guido Guinizelli la fama della scrittura, e non basta lì, perché forse è nato chi li supererà entrambi”. Non è difficile intendere che Dante parli di se stesso. Oderisi prosegue con frasi passate a dignità di proverbio: “Il rumore del mondo è come il vento, che ora spira da un lato ora da quello opposto, mutando solo il nome ma restando aria inconsistente. Chi si ricorderà di te prima che passino mille anni, sia che tu muoia vecchio o bambino? E mille anni, che sembrano interminabili, di fronte all’eternità sono più brevi di un battito di ciglia di fronte alle “stellate rote” che si muovono più tarde nel cielo più lontano”. Poi, l’anima che parla sembra voler rincarare la dose della nostra nullità nel mondo della gloria, portando un altro esempio: c’è un penitente che cammina a poca distanza avanti a lui, del quale ebbe paura l’intera Toscana e ora appena se ne bisbiglia in Siena. Il commento è desolato: “La vostra nomea è come il colore dell’erba, che è verde e subito scolora proprio grazie e a causa del Sole per cui essa nasce e dissecca”. Dante interrompe Oderisi, con una dichiarazione (la quale è confessione della propria superbia: e la ritroveremo nella sostanza nel canto XIII), definendo, sulla scia agostiniana, “gran tumore” il peccato lì punito (“Tuo vero dir m’incora/ bona umiltà, e gran tumor m’appiani”). Alla richiesta del Poeta sul nome del personaggio, il miniaturista risponde: “E’ Provenzan Salvani, presuntuoso al punto di voler tenere in pugno Siena”. Però i conti non tornano circa la pena: egli dovrebbe stare ancora nell’antipurgatorio (fu decapitato nel 1269 e gli anni della vita terrena non sono ancora pareggiati nell’attesa di salire alla prima cornice), ma Oderisi spiega al pellegrino che Salvani, proprio quando viveva nel pieno della potenza, per salvare un suo amico imprigionato da Carlo D’Angiò, si mise a chiedere l’elemosina nel Campo di Siena (la taglia del riscatto era di diecimila fiorini d’oro!): fu questa generosità, opposta alla superbia, che gli accorciò il tempo dell’attesa (ma anche qui, c’è un accenno oscuro all’esilio: “Più non dirò, e scuro so che parlo; / ma poco tempo andrà, che ‘ tuoi vicini/ faranno sì che tu potrai chiosarlo”).
Antonio Biasucci (Caserta 1961) è uno dei più interessanti fotografi della scena artistica napoletana e internazionale. Presenti nella mostra le tematiche che caratterizzano il suo trentennale percorso artistico, si parte da visioni tratte dal mondo contadino, si attraversano le periferie urbane, fino ad arrivare ad una meditazione per immagini sul mistero dell’esistenza.
Sinossi a cura di Aldo Onorati
È questo uno dei canti più belli del Purgatorio.
È lunedì 11 aprile, nell’alta mattinata.
L’esordio consiste nel “Padre nostro” cantato dalle anime che vanno sotto il pondo. La preghiera ricalca quella di Cristo, ma sono presenti lacerti di commento, come quello della chiusa: “Signore, noi non preghiamo per noi stessi, ma per gli uomini che dietro a noi restaro”: le regole egoistiche del mondo sono qui sovvertite, capovolte, come vedremo nel prosieguo del canto.
Le anime, “disparmente angosciate” e stanche, camminano sulla prima cornice “purgando la caligine del mondo”. Ora, Dante si chiede, una volta tornato sulla Terra, mentre scrive e racconta: “Se in Purgatorio si prega sempre per noi viventi, cosa possiamo fare a loro favore? Dobbiamo aiutarli a purgare le macchie del peccato, sicché possano salire al Cielo”. È la comunione dei Santi (Dante riprende in modo diverso, ma ribadendolo, il concetto espresso da Manfredi nella chiusa del terzo canto).
Bisogna sapere da quale parte andare per salire alla cornice successiva. Virgilio lo chiede alle anime che procedono lente, augurando loro che la pietà e la giustizia divina presto li liberi dal peso che li trattiene in Purgatorio, onde salire in Paradiso; e dichiara che il suo compagno di viaggio “si veste ancora della carne d’Adamo” e quindi il suo corpo, ancora corruttibile, gli rende difficoltoso il pendio.
La risposta non fu chiaro da chi venne pronunciata: “Procedete con noi a destra via via a fianco della parete (in Inferno, invece, si camminava sempre prendendo a sinistra), e troverete un passo adatto a una persona viva”. Ma la spiegazione non si ferma qui: anzi, ora viene l’interessante, collegato nei personaggi che, nella sostanza, denunciano il grave peccato della superbia, la propria vanità, dimostrando con l’espiazione del peccato la stoltezza della loro vita, e aggiungendo a questo altri esempi di uomini illustri per poco tempo, ed ora superati da nuovi ingegni, da nuovi potenti. Chi parla è Omberto Aldobrandeschi, di famiglia presuntuosa data la nobiltà e l’antichità del sangue, l’opulenza, la fortuna in armi. “Io fui italiano (Dante usa sempre o quasi il vocabolo “latino” anche nel significato di “chiaro nell’esposizione di un pensiero”), figlio di un grande Toscano, ma non so se voi lo conoscete per fama. Io disprezzai ogni uomo, non pensando alla madre comune, la Terra, che ci nutre e ci ricopre dopo la morte, tutti, indistintamente. Fu l’arroganza che mi condusse a morte. E non solo io ho sofferto di questo male, bensì l’intera mia famiglia. Così, debbo portare questo peso per rimettermi nella grazia di Dio”.
Dante si china per guardare in volto Omberto (il curvare il capo è un segno allegorico, oltre che di necessità fisica per vedere chi si cela sotto il masso: è un espediente che troveremo spesso nella narrazione, quale, ad esempio, nel colloquio con Brunetto Latini, XV dell’Inferno, in cui l’Alighieri, camminando sul rialzo che lo protegge dalla pioggia di fuoco, si china all’altezza del maestro: e non solo per ascoltarlo meglio…); e proprio dalla fila dei penitenti, uno di essi a fianco dell’Aldobrandeschi, si torceva sotto il peso che lo impacciava, perché aveva riconosciuto Dante, e lo chiamava, tenendo a fatica gli occhi fissi sul pellegrino che procedeva “chino” con – e come – loro. Ma il Poeta si apre in un’esclamazione di stupore, perché anch’egli riconobbe l’anima che lo guardava con meravigliato interesse (il verso 76, fortemente paratattico, denuncia un’ansia, una fretta di parlare: il tempo, nel viaggio ultraterreno concesso da Dio a un uomo, è prezioso al pari di quanto dovrebbe esserlo nel mondo, e forse di più, sebbene gli uomini lo sprechino non considerando il suo valore altissimo e irripetibile). “Oh, non sei tu Oderisi, l’onor di Gubbio e della miniatura?”, dice Dante; e l’artista, davvero grande nel suo campo, sposta la lode sul suo allievo Franco Bolognese, le carte miniate del quale “più ridon”, per cui l’onore è tutto suo e mio in parte”. Poi aggiunge, spiegando tanta generosità di riconoscimenti: “Da vivo non sarei stato così prodigo, a causa della volontà di essere superiore agli altri. Di tale superbia qua si paga la pena, e non sarei qui, credimi, se non mi fossi pentito in vita, quanto avevo ancora tempo e occasione di peccare”. Ed ecco la parte centrale del canto: la condanna aperta della vanagloria umana che è nulla di fronte all’eternità e a Dio. Il successo è come le foglie sulle estreme propaggini dei rami, le quali, seccando, indicano la decadenza mortale dell’albero (dura poco, a meno che non segua un periodo barbarico).
Oderisi porta nomi e fatti inconfutabili: “Cimabue credette di essere il più grande nella pittura, e invece ora il grido di gloria è per Giotto, il quale ha oscurato la fama del maestro. Alla stessa maniera Guido Cavalcanti ha tolto a Guido Guinizelli la fama della scrittura, e non basta lì, perché forse è nato chi li supererà entrambi”. Non è difficile intendere che Dante parli di se stesso. Oderisi prosegue con frasi passate a dignità di proverbio: “Il rumore del mondo è come il vento, che ora spira da un lato ora da quello opposto, mutando solo il nome ma restando aria inconsistente. Chi si ricorderà di te prima che passino mille anni, sia che tu muoia vecchio o bambino? E mille anni, che sembrano interminabili, di fronte all’eternità sono più brevi di un battito di ciglia di fronte alle “stellate rote” che si muovono più tarde nel cielo più lontano”. Poi, l’anima che parla sembra voler rincarare la dose della nostra nullità nel mondo della gloria, portando un altro esempio: c’è un penitente che cammina a poca distanza avanti a lui, del quale ebbe paura l’intera Toscana e ora appena se ne bisbiglia in Siena. Il commento è desolato: “La vostra nomea è come il colore dell’erba, che è verde e subito scolora proprio grazie e a causa del Sole per cui essa nasce e dissecca”. Dante interrompe Oderisi, con una dichiarazione (la quale è confessione della propria superbia: e la ritroveremo nella sostanza nel canto XIII), definendo, sulla scia agostiniana, “gran tumore” il peccato lì punito (“Tuo vero dir m’incora/ bona umiltà, e gran tumor m’appiani”). Alla richiesta del Poeta sul nome del personaggio, il miniaturista risponde: “E’ Provenzan Salvani, presuntuoso al punto di voler tenere in pugno Siena”. Però i conti non tornano circa la pena: egli dovrebbe stare ancora nell’antipurgatorio (fu decapitato nel 1269 e gli anni della vita terrena non sono ancora pareggiati nell’attesa di salire alla prima cornice), ma Oderisi spiega al pellegrino che Salvani, proprio quando viveva nel pieno della potenza, per salvare un suo amico imprigionato da Carlo D’Angiò, si mise a chiedere l’elemosina nel Campo di Siena (la taglia del riscatto era di diecimila fiorini d’oro!): fu questa generosità, opposta alla superbia, che gli accorciò il tempo dell’attesa (ma anche qui, c’è un accenno oscuro all’esilio: “Più non dirò, e scuro so che parlo; / ma poco tempo andrà, che ‘ tuoi vicini/ faranno sì che tu potrai chiosarlo”).