Canto 13 - Soma
Inferno
QUASI UN DIARIO DI VIAGGIO di Lamberto Lambertini
Ore di cammino. Appostamenti. Attese. Siamo a caccia di cervi in amore. Sono lontani, misteriosi e regali. La cinepresa li punta. Ma le femmine ci hanno avvistati. Fuggono febbrilmente per non più ritornare. Sconfortati, sulla via del ritorno, attraversano l'asfalto dodici muli in fila indiana. Forti della loro pazienza caricano e scaricano, bendati e sbendati, tonnellate di legna del bosco disboscato che ci circonda. Siamo, senza volere, tra i ramoscelli insanguinati dei suicidi. Il Caso ci ha offerto, ancora una volta, stile e significato. Piatto d'argento.
XIII - SOMA (Molise)
Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise
Il Parco Nazionale d’Abruzzo è stato istituito nel 1923 per salvaguardare la natura e salvare dall’estinzione alcuni animali selvatici. Esteso per 50.000 ettari, si trova nel cuore dell’Appennino centrale, tra Abruzzo, Lazio e Molise e comprende 25 comuni.
Sinossi a cura di Aldo Onorati
Sabato 9 aprile; l’alba è vicina.
Dante e Virgilio sono nel secondo girone del VII cerchio (custodi le Arpie). Incontrano i violenti contro la propria persona (i suicidi) e contro i propri beni (gli scialacquatori). Queste le pene: i suicidi sono mutati in piante o arbusti, sui cui rami le Arpie, emettendo versi trani, si nutrono di foglie procurando dolore alle anime; l’altro gruppo di peccatori corre inseguito da cagne fameliche dalle quali ogni malvagio è lacerato. In tal modo si crea un’osmosi di danno in tutti, perché gli scilacquatori, cercando di sfuggire alle bestie, rompono i ramoscelli dei cespugli, graffiandosi anch’essi il corpo-ombra.
Il contrappasso si spiega così: i violenti contro se stessi, che spregiarono il corpo donato da Dio, sono scesi di grado, entrando nel mondo vegetale. Le Arpie, abominevoli mostri della mitologia classica, con l’aspetto di donne ma con il tronco ricoperto di penne, erano fornite di forti artigli. Dopo il Giudizio Universale, tali dannati torneranno in questa landa desolata e oscura, appendendo ognuno la propria spoglia di carne a un ramo dell’albero in cui abiteranno, in metamorfosi, per sempre. Gli scialacquatori, che rivaleggiarono nello sperperare le proprie ricchezze, ora gareggiano in una corsa senza soste per sfuggire come possono ai morsi delle cagne affamate.
Il paesaggio ha del tenebroso: si odono lamenti, ma non si vede chi li emetta; tutto è colore cupo, come se ci fossero spettrali agguati da temere. Nessuna foglia verde, ma di colore bruno, e rami rintorti, nodosi, privi di frutti ma pieni di veleno. L’anafora “non” con l’avversativa “ma” è di grande effetto descrittivo. Poi, come avviene sempre nella struttura narrativa dell’opera, Dante prende a simiglianza, per comparazione e accostamento visivi, un luogo d’Italia. In tal caso, è l’intricata maremma boschiva tra il fiume Cecina e il castello di Corneto (“Non han sì aspri sterpi né si folti/ quelle fiere selvagge che ‘n odio hanno/ tra Cecina e Corneto i luoghi colti”, v. 7-9). Si delinea aspramente un paesaggio tetro, abbruttito dalle Arpie, reso selvaggio ancor più dalla mancanza di viottoli, per cui è un intrico di cespugli come le fratte spinose dei campi a lungo abbandonati.
Pur nella sua grandiosa e infernale bellezza, questo canto è pieno di implicazioni retoriche (“Cred’io ch’ei credette ch’io credesse”, v. 25), talvolta compiaciute fino all’elaborazione palese. Infatti, abbiamo visto prima le opposizioni di anafore e avversative in ben tre versi; poi incontreremo annominazioni, paronomasie, iterazioni, allitterazioni, metafore geniali e ardite antitesi, analogie etc. D’altronde, è accettabilissima la tesi di Leo spitzer secondo cui Dante si esprime così particolarmente per adeguarsi al tessuto linguistico del personaggio centrale, Pier delle Vigne, nella sua alta retorica di segretario di Federigo II, nonché poeta della scuola Siciliana. Meno convincenti le tesi che vogliono giustificare una parlata tanto forbita in base alla “disarmonia morale” tipica dei suicidi.
Virgilio ordina a Dante, smarrito dalle voci di “esseri invisibili” (ma noi sapremo subito che vengono emesse dagli arbusti), di spezzare un ramoscello da un “gran pruno” (simbologia, attraverso la vastità della pianta, dell’eccezionalità dello spirito dentro rinserrato). E l’albero grida: “Perché mi spezzi?”, colorandosi, nella ferita, di sangue bruno.
Le rime sono difficilissime, aspre; le similitudini potenti, tratte dalla vita e dagli oggetti d’ogni giorno (“Come d’un tizzo verde ch’arso sia/ da l’un dÈ capi, che da l’altro geme/ e cigola per vento che va via, /sì da la scheggia rotta usciva insieme/ parole e sangue…”, v. 40-44). Ma perché Virgilio lo ha istigato a un atto così crudele, sapendo, dalla sua esprienza di poeta, quanto era accaduto a Enea, il quale, sbarcato in Tracia, nel preciso punto in cui era stato ucciso Polidoro, figlio di Priamo, recidendo qualche ramoscello onde abbellire l’altare, vide sgocciolare sangue e udì un amaro rimprovero? Perché (così spiega a Pier delle Vigne tramutato in albero) il vivente non avrebbe creduto a tanto, “nonostante la lettura del mio poema”. Ed ecco che, dietro la spiegazione del poeta latino e la sua domanda sull’identità che il legno racchiude, il dannato racconta di essere stato il confidente di Federigo II (protonotaro e logoteta), ma la “meretrice” (l’invidia), che è morte per gli esseri, rovina comune e vizio delle corti, “infiammò contra me li animi tutti; / e l’infiammati infiammar sì Augusto, / che ‘ lieti onor tornaro in tristi lutti”, v. 67-69. Nel 1249, infatti, sospettato di tradimento in appoggio al papa e a sfavore del re, venne arrestato, accecato e messo in carcere. Era troppo, per uno che aveva amministrato le massime cariche dello Stato con onestà. Per questo si suicidò (“l’animo mio…/ ingiusto fece me contra me giusto”, v. 70 e 72). Ma notiamo qui un punto essenziale: Catone Uticense, suicida, e per di più pagano, viene posto da Dante a guardiano del più cristiano dei regni, il Purgatorio. I commentatori spiegano così le differenze di “concetto del suicidio”: Pier delle Vigne (o della Vigna), innocente secondo Dante (ma altri e recenti studi immettono nel dramma questioni d’amore e di tradimenti in cui i protagonisti sono il protonotaro e la moglie del re - cfr: B. Bruno-E. Ferrarini, “La famiglia sveva: il cor di federigo –Un intrigo a corte”), ha ecceduto nello sdegno, mentre Catone Minore si è ucciso per la libertà.
Il seguito del colloquio è didattico: il dannato spiega perché i suicidi diventino legni che sentono dolore. Le rime azzardate, perfette, la lapidarietà del discorso, il realismo drammatico, sortono nel tessuto didascalico un mirabile effetto poetico.
La seconda parte del canto descrive – come fosse una battuta di caccia – la fuga di due anime avanti alle cagne bramose: feriti, laceri, correvano tanto veloci da strappare ogni foglia della selva, procurando strazio ai cespugli fermi e indifesi.
I due scialacquatori si insultano a vicenda, con punte di amaro e sconsolato sarcasmo, in una sofferenza globale perché causata, per necessità, da ognuno contro tutti. Poi, un fiorentino suicida il cui cespuglio è stato in parte sfrondato dalla fuga di Iacopo da sant’Andrea, spiega il motivo delle continue guerre tra fiorentini: “Io fui originario della città che cambiò il primo protettore (Marte) in Battista. Per vendetta, il dio della guerra travaglierà sempre Fiorenza, e se sul ponte d’Arno non fosse restata almeno una parte della sua statua, i cittadini che la ricostruirono sulle ceneri di Attila, avrebbero fatto lavoro vano”. Dante si rifà alla leggenda con ironia evidente per cercare la radice delle lotte che massacrano la sua patria.
Ore di cammino. Appostamenti. Attese. Siamo a caccia di cervi in amore. Sono lontani, misteriosi e regali. La cinepresa li punta. Ma le femmine ci hanno avvistati. Fuggono febbrilmente per non più ritornare. Sconfortati, sulla via del ritorno, attraversano l'asfalto dodici muli in fila indiana. Forti della loro pazienza caricano e scaricano, bendati e sbendati, tonnellate di legna del bosco disboscato che ci circonda. Siamo, senza volere, tra i ramoscelli insanguinati dei suicidi. Il Caso ci ha offerto, ancora una volta, stile e significato. Piatto d'argento.
XIII - SOMA (Molise)
Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise
Il Parco Nazionale d’Abruzzo è stato istituito nel 1923 per salvaguardare la natura e salvare dall’estinzione alcuni animali selvatici. Esteso per 50.000 ettari, si trova nel cuore dell’Appennino centrale, tra Abruzzo, Lazio e Molise e comprende 25 comuni.
Sinossi a cura di Aldo Onorati
Sabato 9 aprile; l’alba è vicina.
Dante e Virgilio sono nel secondo girone del VII cerchio (custodi le Arpie). Incontrano i violenti contro la propria persona (i suicidi) e contro i propri beni (gli scialacquatori). Queste le pene: i suicidi sono mutati in piante o arbusti, sui cui rami le Arpie, emettendo versi trani, si nutrono di foglie procurando dolore alle anime; l’altro gruppo di peccatori corre inseguito da cagne fameliche dalle quali ogni malvagio è lacerato. In tal modo si crea un’osmosi di danno in tutti, perché gli scilacquatori, cercando di sfuggire alle bestie, rompono i ramoscelli dei cespugli, graffiandosi anch’essi il corpo-ombra.
Il contrappasso si spiega così: i violenti contro se stessi, che spregiarono il corpo donato da Dio, sono scesi di grado, entrando nel mondo vegetale. Le Arpie, abominevoli mostri della mitologia classica, con l’aspetto di donne ma con il tronco ricoperto di penne, erano fornite di forti artigli. Dopo il Giudizio Universale, tali dannati torneranno in questa landa desolata e oscura, appendendo ognuno la propria spoglia di carne a un ramo dell’albero in cui abiteranno, in metamorfosi, per sempre. Gli scialacquatori, che rivaleggiarono nello sperperare le proprie ricchezze, ora gareggiano in una corsa senza soste per sfuggire come possono ai morsi delle cagne affamate.
Il paesaggio ha del tenebroso: si odono lamenti, ma non si vede chi li emetta; tutto è colore cupo, come se ci fossero spettrali agguati da temere. Nessuna foglia verde, ma di colore bruno, e rami rintorti, nodosi, privi di frutti ma pieni di veleno. L’anafora “non” con l’avversativa “ma” è di grande effetto descrittivo. Poi, come avviene sempre nella struttura narrativa dell’opera, Dante prende a simiglianza, per comparazione e accostamento visivi, un luogo d’Italia. In tal caso, è l’intricata maremma boschiva tra il fiume Cecina e il castello di Corneto (“Non han sì aspri sterpi né si folti/ quelle fiere selvagge che ‘n odio hanno/ tra Cecina e Corneto i luoghi colti”, v. 7-9). Si delinea aspramente un paesaggio tetro, abbruttito dalle Arpie, reso selvaggio ancor più dalla mancanza di viottoli, per cui è un intrico di cespugli come le fratte spinose dei campi a lungo abbandonati.
Pur nella sua grandiosa e infernale bellezza, questo canto è pieno di implicazioni retoriche (“Cred’io ch’ei credette ch’io credesse”, v. 25), talvolta compiaciute fino all’elaborazione palese. Infatti, abbiamo visto prima le opposizioni di anafore e avversative in ben tre versi; poi incontreremo annominazioni, paronomasie, iterazioni, allitterazioni, metafore geniali e ardite antitesi, analogie etc. D’altronde, è accettabilissima la tesi di Leo spitzer secondo cui Dante si esprime così particolarmente per adeguarsi al tessuto linguistico del personaggio centrale, Pier delle Vigne, nella sua alta retorica di segretario di Federigo II, nonché poeta della scuola Siciliana. Meno convincenti le tesi che vogliono giustificare una parlata tanto forbita in base alla “disarmonia morale” tipica dei suicidi.
Virgilio ordina a Dante, smarrito dalle voci di “esseri invisibili” (ma noi sapremo subito che vengono emesse dagli arbusti), di spezzare un ramoscello da un “gran pruno” (simbologia, attraverso la vastità della pianta, dell’eccezionalità dello spirito dentro rinserrato). E l’albero grida: “Perché mi spezzi?”, colorandosi, nella ferita, di sangue bruno.
Le rime sono difficilissime, aspre; le similitudini potenti, tratte dalla vita e dagli oggetti d’ogni giorno (“Come d’un tizzo verde ch’arso sia/ da l’un dÈ capi, che da l’altro geme/ e cigola per vento che va via, /sì da la scheggia rotta usciva insieme/ parole e sangue…”, v. 40-44). Ma perché Virgilio lo ha istigato a un atto così crudele, sapendo, dalla sua esprienza di poeta, quanto era accaduto a Enea, il quale, sbarcato in Tracia, nel preciso punto in cui era stato ucciso Polidoro, figlio di Priamo, recidendo qualche ramoscello onde abbellire l’altare, vide sgocciolare sangue e udì un amaro rimprovero? Perché (così spiega a Pier delle Vigne tramutato in albero) il vivente non avrebbe creduto a tanto, “nonostante la lettura del mio poema”. Ed ecco che, dietro la spiegazione del poeta latino e la sua domanda sull’identità che il legno racchiude, il dannato racconta di essere stato il confidente di Federigo II (protonotaro e logoteta), ma la “meretrice” (l’invidia), che è morte per gli esseri, rovina comune e vizio delle corti, “infiammò contra me li animi tutti; / e l’infiammati infiammar sì Augusto, / che ‘ lieti onor tornaro in tristi lutti”, v. 67-69. Nel 1249, infatti, sospettato di tradimento in appoggio al papa e a sfavore del re, venne arrestato, accecato e messo in carcere. Era troppo, per uno che aveva amministrato le massime cariche dello Stato con onestà. Per questo si suicidò (“l’animo mio…/ ingiusto fece me contra me giusto”, v. 70 e 72). Ma notiamo qui un punto essenziale: Catone Uticense, suicida, e per di più pagano, viene posto da Dante a guardiano del più cristiano dei regni, il Purgatorio. I commentatori spiegano così le differenze di “concetto del suicidio”: Pier delle Vigne (o della Vigna), innocente secondo Dante (ma altri e recenti studi immettono nel dramma questioni d’amore e di tradimenti in cui i protagonisti sono il protonotaro e la moglie del re - cfr: B. Bruno-E. Ferrarini, “La famiglia sveva: il cor di federigo –Un intrigo a corte”), ha ecceduto nello sdegno, mentre Catone Minore si è ucciso per la libertà.
Il seguito del colloquio è didattico: il dannato spiega perché i suicidi diventino legni che sentono dolore. Le rime azzardate, perfette, la lapidarietà del discorso, il realismo drammatico, sortono nel tessuto didascalico un mirabile effetto poetico.
La seconda parte del canto descrive – come fosse una battuta di caccia – la fuga di due anime avanti alle cagne bramose: feriti, laceri, correvano tanto veloci da strappare ogni foglia della selva, procurando strazio ai cespugli fermi e indifesi.
I due scialacquatori si insultano a vicenda, con punte di amaro e sconsolato sarcasmo, in una sofferenza globale perché causata, per necessità, da ognuno contro tutti. Poi, un fiorentino suicida il cui cespuglio è stato in parte sfrondato dalla fuga di Iacopo da sant’Andrea, spiega il motivo delle continue guerre tra fiorentini: “Io fui originario della città che cambiò il primo protettore (Marte) in Battista. Per vendetta, il dio della guerra travaglierà sempre Fiorenza, e se sul ponte d’Arno non fosse restata almeno una parte della sua statua, i cittadini che la ricostruirono sulle ceneri di Attila, avrebbero fatto lavoro vano”. Dante si rifà alla leggenda con ironia evidente per cercare la radice delle lotte che massacrano la sua patria.