Canto 17 - Volo

Inferno

QUASI UN DIARIO DI VIAGGIO di Lamberto Lambertini
Vola Dante sul dorso di Gerione. Trema di paura come Fetonte, o Icaro. Le forti braccia di Virgilio che lo tengono stretto. Questa paura non c'è nel cesto dellamongolfiera. E' come se poggiassi i piedi sul pavimento. Solo guardare giù, può dare i brividi. Ma sotto i nostri occhi ci sono le rovine dei templi di Poestum. Sempre più piccole, fino ad essere inghiottite, tra mare ve cielo. Illusioni del tramonto.

XVII - VOLO (Capaccio-Salerno)
Museo Archeologico di Paestum

Ai margini della piana del Sele, all’inizio del Cilento, s’incontra Paestum, uno dei più preziosi gioielli archeologici d’Italia, celebre in tutto il mondo soprattutto per i suoi spettacolari templi dorici.


Sinossi a cura di Aldo Onorati
È l’alba del sabato 9 aprile.
In questo luogo, ancora il terzo girone, sono puniti i violenti contro natura ed arte (gli usurai). Costoro siedono sotto la grandine infuocata. A perpetua sofferenza nel ricordo, portano a vista il simbolo della loro casata, della banca da loro diretta. La legge del contrappasso impone loro un movimento delle mani faticoso. continuo ma quasi inutile: ripararsi con esse dalla pioggia di fuoco e strapparsi i lapilli che bucano la pelle. Al pari, o peggio degli altri dannati, sono trasfigurati in modo orrendo, quasi come – nascostamente – furono deformati (e deturpati interiormente) dal mestiere vile che professarono a danno altrui ma a proprio guadagno senza fatica alcuna. Già abbiamo letto nel canto XI la spiegazione di Virgilio sul fatto dell’arte (in senso ampio di operosità, lavoro etc.) che è nipote di Dio.
Sta per arrivare Gerione, mostro infernale simbolo della frode, male capace di contagiare tutti al mondo. Esso compare ai margini del cerchio e, mentre Virgilio si avvia per parlargli, Dante approfitta della licenza di pochi minuti per riconoscere qualche peccatore: e li adocchia identificandoli con lo stemma di famiglia che mostrano dipinto nella borsa appesa al collo. Tra i ravvisati: Gianfigliazzi, Obriachi e Scrovegni. Proprio quest’ultimo, Reginaldo degli Scrovegni (il cui figlio Enrico commise a Giotto il lavoro di affrescare la omonima famosissima cappella di Padova), dopo aver chiesto al poeta – non senza sarcasmo – cosa ci facesse in quella “fossa”, lo scaccia, dicendogli però che pure Vitaliano di Jacopo Vitaliani, “maximus usuraius”, “sederà qui dal mio sinistro fianco” (v. 69): è una sorta di personale vendetta, in modo che si sappia, a Firenze, al ritorno del pellegrino, la sorte di un altro violento contro natura ed arte.
Gli incontri qui sono poco significativi al di fuori degli exempla e non appartengono alla struttura maggiore del canto, la quale si regge sulla straordinaria descrizione del volo di Gerione. Tuttavia, si può affermare che questo è forse il più difficile nelle rime, nell’intelaiatura musicale. Pare come se Dante si andasse a cercare una sfida all’intreccio rimario, e nulla suona di retorico in ciò. È il più vistoso dei numerosi esempi di superamento di ogni possibilità innovativa nell’inusitato combaciare di sillabazioni fra l’accento tonico del X verso e il piano dell’XI. È una sorta di guerra fra la poesia e la tecnica, ove l’una dà giustificazione alla seconda e questa rafforza la prima alzandola di livello. “Busto-giusto-fusto—Turchi-burchi-lurchi—forca-torca-corca—stremo-semo-scemo—porti-corti-forti—questa-testa-mesta—morsi-porsi-accorsi—azzurro-curro-burro—orecchi-becchi-lecchi—mezzo-disprezzo-rezzo… e tante altre, per l’intero racconto. Inoltre, qui più che altrove c’è una presenza comparativa o metaforica, allusiva e analogica icasticamente forte di animali (“Qui distorse la bocca e di fuor trasse/ la lingua, come bue che ‘l naso lecchi”, v. 74-75), che descrivono la bestialità dei dannati. Il disprezzo di Dante per gli usurai è palpabile. Come ogni grande poeta, anche l’Alighieri evita di condurre per mano i suoi personaggi dicendo quale è buono e quale è cattivo, ma imprime, senza altro giudizio che la concatenazione delle significazioni verbali e delle immagini, l’aspetto interiore attraverso la proiezione di questo in qualche particolare esteriore, specie qui in Inferno, dove i peccati e i peccatori formano indimenticabili osmosi fra l’animo e la sua esternazione nei tratti del volto e nello sguardo, oltre che –naturalmente – nelle parole. E pure Gerione rientra in tale descrittività del mondo bestiale (simbologia e allegoria insieme chiarissime che affondano nel mito e nella poesia favolistica degli antichi, nella fantasia dei popoli pre-cristiani; Ovidio delle Metamorfosi è –per paradosso- più presente di Virgilio con la sua Eneide nel poema sacro).
Ed ecco apparire agli occhi esterrefatti di Dante il mostro, sul quale deve salire, affidandosi alle sue manovre di volo nel buio denso: non c’è altra scelta: “Trova’ il duca mio ch’era salito/ già su la groppa del fiero animale” (v. 79-80), e il maestro, con ironia sottile, e forse anche leggermente comica nella paura generale, così si esprime invitando l’allievo a salire sul dorso della bestia volante: “ormai si scende per sì fatte scale” (v. 82), e, di seguito, con una bellezza espressiva degna del tatto di un grande spirito (e qui sappiamo bene trattarsi di Dante che parla per bocca di Virgilio): “monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo, /sì che la coda non possa far male” (v. 83-84). Infatti, il pungiglione velenoso a guisa di quello d’uno scorpione, nel malaugurato caso che avesse agito, avrebbe punto Virgilio e non Dante che sedeva fra il suo maestro e la testa del mostro volante. Il pellegrino avrebbe voluto dire a Virgilio di abbracciarlo, ma la voce non venne fuori appena sedutosi “in su quelle spallacce” (v. 91); ma la premura del maestro previene la richiesta verbale e “con le braccia m’avvinse e mi sostenne” (v.96).
Gerione è un essere deforme e repellente, viscido, triforme: la faccia è di uomo giusto, benevolo, ma il tronco è di serpente con squame di vari colori e cerchi di diversi cromatismi; ha due zampe leonine, irsute fino alle ascelle, ma il veleno è nella coda (in cauda venenum), che esso nasconde nel vuoto oscuro, pronta a trafiggere. Simbologia splendida della frode, che appare bella ma serra nel profondo il tradimento e la pugnalata mortale.
Non solo Virgilio si mette prudentemente fra Dante e la coda del mostro, ma dà precisi ordini a questi perché Dante –come ogni essere fino allora (tranne pochi esempi disgraziati: Icaro, Fetonte…)- non aveva mai avuto l’esperienza suprema del volo: “Gerion, moviti ormai: /le rote larghe, e lo scender sia poco;/ pensa la nova soma che tu hai” (v.97-99).
La descrizione della discesa ha del prodigioso. Come una navicella che esce dall’approdo, movendosi all’indietro; similmente fece Gerione, e quando si sentì a suo agio nel vuoto, “là ‘v’era ‘l petto, la coda rivolse, /e quella tesa, come anguilla, mosse, /e con le branche l’aere a sé raccolse” (v. 103-105). Il terrore di Dante superò quello dei suoi sfortunati predecessori, uno dei quali volle guidare il carro del Sole e l’altro, fuggendo con Dedalo dal labirinto con ali fatte da penne di uccelli attaccate alle braccia con la cera, essendosi troppo avvicinato alla nostra stella, vide sciogliersi la materia collosa, per cui precipitò in mare. Il desiderio del volo ha accompagnato gli uomini dai primordi, e il poeta non perde occasione per inventare questa esperienza: ma lo fa con tale precisione di particolari, che sembrerebbe descrizione moderna di chi avesse avuto diretta esperienza con un elicottero. “Vidi ch’i’ era/ ne l’aere d’ogni parte…” (v.113-114). Sotto di loro, il buio. Nessun punto di riferimento. Il pellegrino si accorge di scendere con Gerione solo dal vento che sente alitargli di sotto e sul viso. E quando udì il forte rumore della cascata, azzardò uno sguardo in giù: notò dei fuochi e sentì dei pianti; il volo stava per finire. Dante prende in prestito un esempio all’arte della caccia col falcone stanco di volare e quindi in discesa rapida verso il suo falconiere: “così ne puose al fondo Gerione/ al piè al piè della stagliata rocca/ e, discarcate le nostre persone, /si dileguò come da corda cocca” (v. 133-136), cioè rapidamente, a guisa d’una freccia dalla corda dell’arco (è una sineddoche e pure un’allitterazione per il battito onomatopeico di “co” (rda) “cocca”.