Canto 19 - Imago
Purgatorio
Villa Manin fu la dimora dell’ultimo doge di Venezia Ludovico Manin (1789-1798), nel 1797, durante la campagna d’Italia, il giovane generale francese Napoleone Bonaparte risiede nella villa per alcuni mesi, per concludere le trattative con gli Austriaci, e quindi firmare il Trattato di Campoformio (17 ottobre 1797). Nel 2013 la Villa ha ospitato la mostra fotografica "Confronti". 12 fotografi a Villa Manin di Passariano".
Sinossi a cura di Aldo Onorati
E’ l’alba di martedì 12 aprile. Dalla IV cornice degli accidiosi, i due pellegrini passano poi alla V dove sono puniti gli avari e i prodighi.
Poco prima che schiarisca il cielo (il Poeta usa una perifrasi non riuscita per troppa materia tecnica immessa nell’indicazione dell’orario), Dante sogna una femmina balbuziente, cieca d’un occhio, slavata e “sovra i piè distorta” (v. 8), monca di entrambe le mani. L’allegoria non è di difficile interpretazione; scelgo quella del Benvenuto, in quanto – egli dice – “l’avaro, che nulla dà, sta con mani e piedi legati”.
Dante la guarda, e come il sole conforta le membra raffreddate dalla notte (sguardo-sole: è uno spunto stilnovistico), allo stesso modo gli occhi del Poeta sciolgono la lingua di lei, che drizzava veloce tutta la persona, e poi donava colore al suo viso sbiadito com’è regola dell’amore. E dopo che il suo parlare diveniva sciolto, cominciava a cantare in modo così seducente, che con fatica avrebbe rivolto l’intendimento da lei.
Cantava: “Io sono la dolce sirena che incanta i marinai in mezzo al mare, tanto è piena di delizie la mia voce! Io volsi Ulisse del suo cammino attratto dal mio canto, e chi si adusa con me, raramente si diparte dalla mia persona, a tal punto lo soddisfo”. Ma ecco una donna - che Dante non riconosce, incantato dalla sirena – santa e sollecita, la quale si mise vicino a lui per confondere l’ammaliatrice, chiedendo a Virgilio chi fosse quella strana femmina. Virgilio svela quale orrore si celi sotto l’apparenza di seduzione: mostra il ventre di lei, che emana fetore irresistibile, tanto che il pellegrino si desta. Muove gli occhi, mentre il Maestro gli dice: “Ti ho mandato almeno tre chiamate; alzati: troviamo il passaggio che porta alla cornice successiva. “Io mi alzai e vidi tutti i gironi del sacro monte illuminati dal sole che riscaldava le nostre spalle”. Seguendo la guida, il pellegrino sentiva la fronte carica di pensieri, quando udì: “Venite; qui si varca”, e queste parole furono dette in modo soave e benigno, come non si sente mai nel nostro mondo mortale.
Riporto, di tanto in tanto, i versi quando non hanno bisogno di essere chiariti, di modo che si senta la bellezza del dettato poetico della Commedia: “Con l’ali aperte, che parean di cigno, / volsesi in su colui che sì parlonne / tra due pareti del duro macigno”. Quindi, mosse le penne, li ventilò con esse, dicendo: “Beati coloro che piangono, perché saranno consolati”.
Virgilio chiede a Dante perché tiene gli occhi bassi, ed il poeta ne dà causa alla visione che lo ha turbato. “Vedesti l’antica ammaliatrice terrena, che promette felicità e dà putredine. Ti basti, come esempio, per volgerti al Cielo”.
Appena i due giunsero al quinto giro, videro gente che piangeva bocconi, lacrimando: “L’anima mia è saldata al pavimento”. E’ scontato che i due chiedano la via per procedere. E la risposta è: “Se voi siete sicuri dal giacere, fate in maniera che la vostra destra sia verso il vuoto”. Sicuri, che io ho scritto in corsivo, viene dal latino “sine cura” (chi leggerà il De vulgari eloquentia, tenga in mente tutte le parole che Dante forgia da sé, quelle che preleva da altre lingue e dai dialetti).
Ora il Poeta si rivolge – chiesto il permesso al Maestro – all’anima che aveva sentito piangere, pregandola di parlare, lasciando quindi, per un attimo, la sua principale preoccupazione. E il penitente (il papa Adriano V) offre le sue generalità umane: Ottobono Fieschi, nato nella riviera di Genova. Elevato al soglio di Pietro, regnò poco più di un mese (11 luglio – 18 agosto 1276, Viterbo).
A questo punto, sembra che Dante abbia commesso un errore di nome e di date: poiché il Fieschi non peccò di avarizia, è probabile che l’Alighieri lo abbia scambiato con Adriano IV – di cui parla Giovanni di Salisbury, pontefice del secolo precedente, inglese, il quale, una volta eletto papa, capì di aver dato troppo peso alla vanagloria terrena e se ne pentì.
Leggiamo le due belle terzine che non hanno bisogno di spiegazione: “La mia conversione, omè!, fu tarda; / ma, come fatto fui roman pastore, / così scopersi la vita bugiarda. / Vidi che lì non s’acquetava il core, / né più salir potiesi in quella vita; / per che di questa in me s’accese amore”. Fino a quel momento la sua esistenza elesse l’avarizia, e siccome gli occhi guardarono ai beni terreni, ora essi sono contratti dalla postura a fissare il pavimento e non il Cielo.
Dante, rispettoso della gerarchia ecclesiastica, si inginocchia , ed il papa, sentendo la sua voce più vicina, gli chiede il motivo di quella genuflessione. Poi, lo sollecita a rialzarsi, chiamandolo fratello. Il tono di umiltà del pontefice (“non errar: conservo sono / teco e con li altri ad una podestate”) riporta alla lezione immensa dell’XI canto e a molte altre sparse in tutta la Commedia. Quindi, aggiunge un monito preso dal Vangelo di Matteo (neque nubent), in cui viene chiesto a Gesù dai Sadducei a quale uomo una donna che aveva avuto più mariti si unirà dopo la Resurrezione, e Cristo risponde che non ci saranno né spose né sposi, ma puri spiriti. La lezione è solenne: “Fui pontefice in Terra, al sommo della scala degli onori e del potere; adesso, qui, sono una delle tante anime purganti che vogliono solo salire a Dio”. E la chiusa è data dall’invito piuttosto deciso del papa a Dante di andarsene, poiché la presenza estranea rallenta il dovere di scontare la pena col pianto. Quindi, accenna di avere nel mondo una nipote, Alagia, unica rimasta a vivere nella Grazia, “sempre che la nostra casata non la guasti con i suoi malvagi esempi”.
Sinossi a cura di Aldo Onorati
E’ l’alba di martedì 12 aprile. Dalla IV cornice degli accidiosi, i due pellegrini passano poi alla V dove sono puniti gli avari e i prodighi.
Poco prima che schiarisca il cielo (il Poeta usa una perifrasi non riuscita per troppa materia tecnica immessa nell’indicazione dell’orario), Dante sogna una femmina balbuziente, cieca d’un occhio, slavata e “sovra i piè distorta” (v. 8), monca di entrambe le mani. L’allegoria non è di difficile interpretazione; scelgo quella del Benvenuto, in quanto – egli dice – “l’avaro, che nulla dà, sta con mani e piedi legati”.
Dante la guarda, e come il sole conforta le membra raffreddate dalla notte (sguardo-sole: è uno spunto stilnovistico), allo stesso modo gli occhi del Poeta sciolgono la lingua di lei, che drizzava veloce tutta la persona, e poi donava colore al suo viso sbiadito com’è regola dell’amore. E dopo che il suo parlare diveniva sciolto, cominciava a cantare in modo così seducente, che con fatica avrebbe rivolto l’intendimento da lei.
Cantava: “Io sono la dolce sirena che incanta i marinai in mezzo al mare, tanto è piena di delizie la mia voce! Io volsi Ulisse del suo cammino attratto dal mio canto, e chi si adusa con me, raramente si diparte dalla mia persona, a tal punto lo soddisfo”. Ma ecco una donna - che Dante non riconosce, incantato dalla sirena – santa e sollecita, la quale si mise vicino a lui per confondere l’ammaliatrice, chiedendo a Virgilio chi fosse quella strana femmina. Virgilio svela quale orrore si celi sotto l’apparenza di seduzione: mostra il ventre di lei, che emana fetore irresistibile, tanto che il pellegrino si desta. Muove gli occhi, mentre il Maestro gli dice: “Ti ho mandato almeno tre chiamate; alzati: troviamo il passaggio che porta alla cornice successiva. “Io mi alzai e vidi tutti i gironi del sacro monte illuminati dal sole che riscaldava le nostre spalle”. Seguendo la guida, il pellegrino sentiva la fronte carica di pensieri, quando udì: “Venite; qui si varca”, e queste parole furono dette in modo soave e benigno, come non si sente mai nel nostro mondo mortale.
Riporto, di tanto in tanto, i versi quando non hanno bisogno di essere chiariti, di modo che si senta la bellezza del dettato poetico della Commedia: “Con l’ali aperte, che parean di cigno, / volsesi in su colui che sì parlonne / tra due pareti del duro macigno”. Quindi, mosse le penne, li ventilò con esse, dicendo: “Beati coloro che piangono, perché saranno consolati”.
Virgilio chiede a Dante perché tiene gli occhi bassi, ed il poeta ne dà causa alla visione che lo ha turbato. “Vedesti l’antica ammaliatrice terrena, che promette felicità e dà putredine. Ti basti, come esempio, per volgerti al Cielo”.
Appena i due giunsero al quinto giro, videro gente che piangeva bocconi, lacrimando: “L’anima mia è saldata al pavimento”. E’ scontato che i due chiedano la via per procedere. E la risposta è: “Se voi siete sicuri dal giacere, fate in maniera che la vostra destra sia verso il vuoto”. Sicuri, che io ho scritto in corsivo, viene dal latino “sine cura” (chi leggerà il De vulgari eloquentia, tenga in mente tutte le parole che Dante forgia da sé, quelle che preleva da altre lingue e dai dialetti).
Ora il Poeta si rivolge – chiesto il permesso al Maestro – all’anima che aveva sentito piangere, pregandola di parlare, lasciando quindi, per un attimo, la sua principale preoccupazione. E il penitente (il papa Adriano V) offre le sue generalità umane: Ottobono Fieschi, nato nella riviera di Genova. Elevato al soglio di Pietro, regnò poco più di un mese (11 luglio – 18 agosto 1276, Viterbo).
A questo punto, sembra che Dante abbia commesso un errore di nome e di date: poiché il Fieschi non peccò di avarizia, è probabile che l’Alighieri lo abbia scambiato con Adriano IV – di cui parla Giovanni di Salisbury, pontefice del secolo precedente, inglese, il quale, una volta eletto papa, capì di aver dato troppo peso alla vanagloria terrena e se ne pentì.
Leggiamo le due belle terzine che non hanno bisogno di spiegazione: “La mia conversione, omè!, fu tarda; / ma, come fatto fui roman pastore, / così scopersi la vita bugiarda. / Vidi che lì non s’acquetava il core, / né più salir potiesi in quella vita; / per che di questa in me s’accese amore”. Fino a quel momento la sua esistenza elesse l’avarizia, e siccome gli occhi guardarono ai beni terreni, ora essi sono contratti dalla postura a fissare il pavimento e non il Cielo.
Dante, rispettoso della gerarchia ecclesiastica, si inginocchia , ed il papa, sentendo la sua voce più vicina, gli chiede il motivo di quella genuflessione. Poi, lo sollecita a rialzarsi, chiamandolo fratello. Il tono di umiltà del pontefice (“non errar: conservo sono / teco e con li altri ad una podestate”) riporta alla lezione immensa dell’XI canto e a molte altre sparse in tutta la Commedia. Quindi, aggiunge un monito preso dal Vangelo di Matteo (neque nubent), in cui viene chiesto a Gesù dai Sadducei a quale uomo una donna che aveva avuto più mariti si unirà dopo la Resurrezione, e Cristo risponde che non ci saranno né spose né sposi, ma puri spiriti. La lezione è solenne: “Fui pontefice in Terra, al sommo della scala degli onori e del potere; adesso, qui, sono una delle tante anime purganti che vogliono solo salire a Dio”. E la chiusa è data dall’invito piuttosto deciso del papa a Dante di andarsene, poiché la presenza estranea rallenta il dovere di scontare la pena col pianto. Quindi, accenna di avere nel mondo una nipote, Alagia, unica rimasta a vivere nella Grazia, “sempre che la nostra casata non la guasti con i suoi malvagi esempi”.