Canto 20 - Acqua

Inferno

QUASI UN DIARIO DI VIAGGIO di Lamberto Lambertini
Avevo realizzato, tempo prima, un documentario sull'Acquario di Napoli. I pesci, le murene in particolare, parevano messaggeri di altre dimensioni, di verità sconosciute. Per cambiare, abbiamo optato per uno più grande, quello di Genova. Altro è la Piscina Mirabilis, dove l'acqua non c'è più. Immensa cisterna per approvvigionare le navi di Nerone. Spettrale cattedrale sotterranea dalle colonne ritagliate da gelide lame di luce. Attrazione e paura.

XX - ACQUA (Genova/Bacoli-Napoli)
Acquario di Genova

L'Acquario di Genova rappresenta la più grande varietà di ecosistemi e la più grande esposizione di biodiversità in un acquario europeo.
Piscina Mirabilis
E’ il grandioso punto terminale dell’acquedotto augusteo che, dalle sorgenti di Serino vicino Avellino, dopo 100 chilometri portava l’acqua a Napoli e alla zona flegrea. Fu costruita nel periodo romano sulla collina vicino al porto di Miseno che, all’epoca, era sede della flotta imperiale romana: il suo porto, creato tra il regno di Domiziano e quello di Adriano, ebbe un’enorme importanza e sulla costa furono fabbricati due bacini con tutte le attrezzature necessarie alla vita di una grande base navale per oltre 6000 uomini.

Sinossi a cura di Aldo Onorati
Sabato 9 aprile, ore 6 del mattino. È il sorgere del sole.
I pellegrini sono nella IV bolgia, quella in cui vengono puniti gli indovini, i maghi, i quali osarono guardare avanti nel futuro, ed ora sono costretti a guardare indietro. In che modo? Il capo è rigirato in maniera che la faccia appaia sulle spalle e la schiena, mentre i capelli e la nuca sorgono in linea del petto e dei piedi. Gli spiriti mali sono molti, ma il centro del canto è rappresentato dalla narrazione, da parte di Virgilio, della vera storia della fondazione di Mantova. I riferimenti geografici sono molti, precisi, talvolta solo nominali, e va notato un errore di Dante: Manto è qui, ma nel XXII del Purgatorio, v. 113, Stazio dice che la figlia di Tiresia (Manto, appunto) si trova nel Limbo. Di essa parla Virgilio (Eneide), Ovidio (Metamorfosi), Stazio stesso nella Tebaide.
Il canto si apre con un’insolita terzina: “Di nova pena mi convien far versi/ e dar matera al ventesimo canto/ della prima canzon, ch’è d’i sommersi” (v. 1-3). “Conviene” ha sempre significato imperativo, così come “viso” si riferisce quasi totalmente allo sguardo più che al volto. E nel fondo del vallone il poeta vede camminare gente come nelle processioni del mondo, dietro ai chierici, cantando le litanie. Nel notare così stravolto il corpo umano, cioè la testa girata di centottanta gradi, il poeta piange. E lo confessa al lettore con una frase ottativa, spiegando, con una sorta di osmosi di stili (tragico e mezzano), il motivo del suo cedimento: l’uomo, creato a sembianza di Dio, è sfigurato in modo spaventoso: “La nostra immagine di presso/ vidi sì torta, che ‘l pianto de li occhi/ le natiche bagnava per lo fesso” (v. 22-24). Cioè, i dannati lacrimano, e il poeta fa “lo simigliante”. Ma Virgilio lo rimprovera per tale pietà, dicendo: “chi è più scellerato che colui/ che al giudizio divin passion comporta?” (v. 29-30): aver pena dei rei è – secondo l’Ottimo – una sorta di partecipazione al loro peccato. Ma sorprende come Virgilio rimbrotti Dante in modo così duro, quando non ha ripreso il discepolo in altre occasioni di lampante sua pietà verso i dannati.
Ed ecco una straordinaria descrizione del contrappasso, riguardante Anfiarao: “Mira c’ha fatto petto delle spalle; /perché volle veder troppo davante, / di retro guarda e fa retroso calle” (v. 37-39). Poi incontrano Tiresia, famoso indovino tebano, che andò a Troia con gli achei. Ovidio narra che Tiresia, avendo battuto con un virgulto due serpenti in amore, fu tramutato in donna. Passati sette anni, tornò alla sua primitiva forma di uomo perché, ritrovati i due serpi, li colpì nuovamente.
Altro dannato è l’augure etrusco Aronta, ma subito viene la protagonista della narrazione, la maga Manto. La cosa presenta alcuni punti delicati. Virgilio, nell’ Eneide, scrive che Mantova fu fondata da Ocno, nato dall’unione della maga e del Tevere. La denominazione della città cara al poeta latino fu scelta da Ocno in onore della madre. Qui, invece, Virgilio (ma è Dante a pensare, e poi vedremo perché) corregge, modifica la storia, affermando che furono i mantovani a “mentuarla” edificandola, perché ivi giacevano le spoglie mortali di Manto. Dante ha voluto staccare il suo maestro da una leggenda medievale che voleva Virgilio legato in qualche modo alle pratiche magiche (ma non dimentichiamo, invece, che tutto il Medioevo ha tenuto il poeta latino in onore di profeta della nascita di Cristo: ne parla lo stesso Stazio, come già accennato, nei canti gemelli del Purgatorio XXI-XXII).
Dunque, Manto si copre il seno con le trecce sciolte. Virgilio spiega che ella andò peregrinando per diversi luoghi dopo la morte del padre, una volta caduta schiava Tebe sacra a Bacco, finché “si puose là dove nacqu’io; / onde un poco mi piace che m’ascolte” (v. 56-57).
Su, nella bella Italia, sorge un lago di nome Benaco, ai piedi delle Alpi. La vasta zona compresa fra il Garda, la Val Camonica e le Alpi Pennine, è irrigata da mille rivi che finiscono nel Benaco. In mezzo a questi punti di delimitazione, vi è un luogo in cui il vescovo di Trento, Verona e Brescia potrebbe dare la benedizione qualora visitasse la zona.
Virgilio fornisce dettagli per la descrizione di quel sito geografico su cui sorgerà la città dei suoi natali. Nomina Peschiera che, ai tempi della “Commedia”, apparteneva agli Scaligeri di Verona ed aveva avuto fortificazioni di difesa contro bresciani e bergamaschi –per opera di Martino II-. L’acqua del Garda esce in emissario (il Mincio), finendo nel Po presso Governolo in provincia di Mantova. Da notare che troviamo tre endecasillabi tronchi (74, 76, 78), non molto usuali in Dante, ma che spezzano almeno col ritmo la nomenclatura e le perifrasi nominative un po’ lunghe. Insomma, prima di versarsi nel Po, il Mincio forma una palude (“lama”, equivalente di “lacca” già incontrato prima). La vergine solitaria (il poeta la definisce cruda, forse perché Stazio, nella Tebaide, dice che Manto libava col sangue delle sue vittime), passando di lì, per fuggire ogni consorzio umano, “vide terra, nel mezzo del pantano” (v. 83): un luogo spopolato. Lì “ristette con suoi servi a far le arti, / e visse, e vi lasciò suo corpo vano” (v. 86-87). La gente dei dintorni, trovando il posto naturalmente ben difeso grazie al pantano che lo cingeva, “Fer la città sovra quell’ossa morte; / e per colei che ‘l loco prima elesse,/ Mantua l’appellar senz’altra sorte” (v. 91-93). A questo punto, come detto prima, Virgilio, correggendo la sua stessa versione data nell’Eneide, dice a Dante “Però t’assenno che, se tu mai odi/ originar la mia terra altrimenti, / la verità nulla menzogna frodi” (v. 97-99, ove troviamo “t’assenno”, parola usata un’unica volta in tutto il poema, e chiamasi ‘apax’ o ‘hapax’).
Altri peccatori di tale risma: Euripilo (“come canta il mio poema epico che tu conosci tutto”, loda Virgilio il suo allievo). Quest’altro così magro è Michele Scotto, ottimo astrologo, traduttore dall’arabo di alcuni testi di Aristotele e Avicenna. C’è, fra gli indovini, un maestro calzolaio, Asdente, contemporaneo di Dante. Ed ecco una forma di conclusione già trovata nei canti XI e XIV quale passaggio da un canto all’altro o come recupero dopo una pausa del cammino: “Ma vienne omai, ché già tiene ‘l confine/ d’amendue li emisperi e tocca l’onda/ sotto Sobilia Caino e le spine; / e già iernotte fu la luna tonda” (v. 124-127), che, tradotto, significa: “Andiamo via da qui, dato che la luna (Caino e le spine) è già al confine dei due emisferi e tramonta sotto Siviglia, e già ieri notte era piena…”; non sta nel giusto chi dimentica che il poeta non perde occasione per parlare da astronomo pure in Inferno. Forse il nucleo più difficile d’interpretazione di tutta la “Commedia” consiste nell’astronomia, cosa ben poco trattata da diversi e notissimi commentatori.
In questo canto troviamo un’altra ‘apax’: introcque” (v. 130, ultima parola), che è formata da ‘inter hoc’, vale a dire ‘frattanto’.
Per concludere: Virgilio indica a Dante alcuni indovini, i quali mostrano, con sfumature lampanti nella loro diversità, la consistenza – comune denominatore- del peccato: l’essersi contrapposti alla legge stabilita da Dio e dalla Natura.