Canto 32 - Vertigo

Purgatorio

XXXII - VERTIGO (Bolzano)
Museion
Museion - museo d’arte moderna e contemporanea di Bolzano è stato fondato nel 1985 da un’associazione culturale. Raccoglie oltre 4.500 opere di arte moderna e contemporanea che vengono esposte in mostre tematiche.

Sinossi a cura di Aldo Onorati
E’ mercoledì 13 aprile. Sono le 11 del mattino.
Il Poeta è calamitato da Beatrice che non vede da decenni. Il resto era tutto in secondo piano nell’attenzione di Dante, quando una delle tre donne divine gli fa notare che guarda troppo intensamente solo lei. Ma la vista non tornò subito chiara, come quando è abbagliata dal sole (nei vv 10 e 12 si osservano due epitesi molto azzardate: èe – fèe, usate per soli motivi metrici e tonici). Ma poi che la sua vista riprese vigore per il poco lume dopo quello sfolgorante di Beatrice, notò che la processione svoltava a destra, tornando indietro preceduta dai sette candelabri. Il Sole batteva sui volti. I ventiquattro “seniori” che erano innanzi al corteo, sfilarono al cospetto dei nuovi venuti ancor prima che il carro manovrasse il suo timone volgendosi verso oriente. “Indi a le rote si tornar le donne, / e il grifon mosse il benedetto carco” (vv. 25-26). Dante non conosce ancora il nome di Matelda, e la definisce la “bella donna” che lo aveva calato nel Leté; quindi, con Stazio, che non è scomparso come Virgilio, in quanto destinato al Paradiso, procedono accanto alla ruota destra che aveva solcato un arco minore. Mentre procedevano nella selva priva di persone vive a causa della disobbedienza di Eva, un sublime canto dava il ritmo ai loro passi (la musica, che apre, insieme alla vista del cielo stellato, la seconda cantica, non sarà più separabile dalla narrazione specie nel Paradiso).

Avevano percorso tre volte la gittata d’una freccia (in media 70-80 metri ai tempi dell’Alighieri), quando Beatrice scese dal carro.
Tutti mormoravano il nome di Adamo; poi formarono un cerchio intorno a una pianta defogliata e senza germoglio alcuno.
L’allusione si riempie di significati e citazioni scritturali: è chiaro il riferimento all’albero del peccato, il cui frutto non doveva essere mangiato dai nostri primi avi. La sua chioma, che si dilata in proporzione all’altezza, sarebbe stata invidiata dagli indiani che pure hanno foreste di alberi altissimi.
Ora, due sono i contrastanti elementi del discorso e della descrizione: Adamo, che iniziò, col peccato di disubbidienza, il dolore per tutta l’umanità, e Cristo che soffrì per riscattarla da esso. Infatti, il grifone (rappresentante le due nature di Gesù: uomo e Dio) non avvicina il becco alla pianta, il cui dolce gusto si ritorcerebbe in atroci dolori. Così, legò il timone alla base del fusto fissandolo a un ramo della stessa pianta.
Come i nostri alberi si ingemmano a primavera, aprendosi a vari colori, prima che il Sole passi a un’altra costellazione, alla stessa maniera, aprendosi fiori d’un colore meno vivo di quello delle rose ma più intenso di quello delle viole, riprese vita quella pianta prima spoglia e disadorna. Io non capii il canto di quelle persone, perché qui in terra non è lo stesso, né fui in grado di arrivare fino in fondo al coro. Mi prese sonno, né so spiegare come e perché; anzi – afferma Dante – sfiderei chiunque a spiegare e a rappresentare il momento in cui la veglia cede al sonno. Per questo vado oltre, direttamente al punto in cui mi destai, squarciato il velo del sonno da uno splendore che disse: “Sorgi, che fai?” (il verbo “sorgi” ha una valenza superiore al semplice invito ad alzarsi. “Surgite e nolite timere” sono le parole che Cristo usò per destare gli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo sul monte Tabor).
Nella metafora, la parola “melo” intende “Cristo” (cfr Cantico dei cantici : “Come melo tra le piante, così il mio diletto fra i giovani”), per cui la spiegazione del difficile parallelo è questa: ‘come per vedere le gemme del melo (i frutti spirituali di Gesù), che fanno gli angeli sempre avidi di cibarsene in nozze celesti, Pietro, Giovanni e Giacomo (cfr. i Vangeli), condotti e vinti dall’apparizione, tornarono in sé al suono delle parole di Cristo, ma non videro né Mosé né Elia e si accorsero che il Maestro aveva mutato le vesti nel momento della trasfigurazione; così tornai io alla coscienza e notai quella pia donna che mi aveva condotto, attraverso il Leté sopra di me star chinata’. Dante chiede, dubbioso, dove sia Beatrice. Ella sedeva su una radice dell’albero rinnovato nelle foglie, attorniata dalle sette virtù; il resto della compagnia risale al cielo insieme al grifone “con più dolce canzone e più profonda”. Poi, se Matelda espresse altre considerazioni, il Poeta non poteva dirlo, tutto preso com’era dalla vista di Beatrice, la quale sedeva sulla nuda terra come posta a guardia del carro. Le “ninfe” le facevano corona con i doppieri in mano. Ed ora Beatrice si rivolge a Dante così: “Tu starai poco tempo qui; poi, per l’eternità, con me in Cielo, abitante di quella Roma celeste di cui anche Cristo è cittadino. Per cui, a beneficio del mondo che vive nel male, tu adesso guarda con attenzione il carro e tieni a memoria quanto vedi, per scriverlo quando torni di là” (è anche questo un annuncio della provvidenzialità del viaggio dantesco nell’oltretomba. Per quanto riguarda la dichiarazione contenuta nel verso 102: “di quella Roma onde Cristo è romano”, va detto che Roma ha una duplice presenza e un duplice significato: la Roma terrena, sede del papato e fulcro di diffusione del cristianesimo nonché sede dell’impero; quindi l’altra Roma, quella celeste).
Dal verso 109 al 160, si snoda, in sette quadri, la storia della Chiesa in pura allegoria.
Piomba dall’alto un’aquila con la velocità del fulmine e si avventa contro l’albero, facendone strazio dei germogli e inclinandolo come nave in tempesta ora a destra ora a sinistra (rappresentazione dell’impero romano che perseguita i primi cristiani).
Poi una volpe magra affamata tenta di nascondersi nel fondo del carriaggio, ma viene ricacciata via dai rimproveri di Beatrice che le elenca le vergognose colpe (l’animale significa il periodo delle eresie che, con l’astuzia di cui la volpe è simbolo, volevano mettere in forse la dottrina della Chiesa).
Poi, ancora l’aquila, avventarsi sul carro e lasciarvi molte sue penne; dal cielo giunge una voce accorata: “O navicella mia, di quale cattiva mercanzia ti sei gravata!”. Qui occorre una spiegazione che non è possibile tralasciare. Dante ha criticato spesso la “donazione di Costantino”, causa, secondo il Poeta, di molti mali della Chiesa (cfr. canto XX del Paradiso, vv. 55-57, in cui l’Aquila, indicando Costantino, dice che la sua buona intenzione di spostare la capitale dell’impero a Costantinopoli, onde lasciare Roma al papa, aveva fini buoni, ma dette cattivi frutti, in quanto i due poteri, temporale e spirituale, non dovevano essere uniti; inoltre, anche nel Monarchia si legge:
“Dicono ancora taluni, che Costantino, essendo mondato della lebbra, per la intercessione di Silvestro, allora pontefice, donò la sedia dello Imperio, cioè Roma, alla Chiesa, con molte altre dignità dello Imperio. Donde arguiscono, che quelle dignità dipoi nessuno può ricevere, se non le riceve dalla Chiesa… E di questo bene seguiterebbe, come vogliono, l’una autorità dall’altra dipendere… (Ma) Costantino non poteva alienare l’Imperio, e la Chiesa non lo poteva ricevere… (E’) contro l’officio dell’Imperatore dividere l’Impero… Non è lecito allo Imperatore dividere lo imperio” (Monarchia, III, x-xi).

Poi esce dalla terra un drago che, come la vespa fa col pungiglione, porta con sé una parte del carro e se ne va (non è chiara l’allusione: alcuni parlano dell’Islam, altri dell’anticristo).
Nuova visione. Come la terra si copre di gramigna, così il carro si veste delle penne dell’aquila (è il potere temporale che inquina la Chiesa).
Trasformato così l’edificio santo, mise fuori per ogni parte teste e corna (il numero sette – per la critica più vicina a noi – simboleggia i sette peccati capitali).
Come rocca posta su un monte, apparve a Dante una prostituta assisa sul carro. L’Apocalisse è riferimento obbligato di queste similitudini. La Chiesa, divenuta un mostro, viene però protetta da un gigante col quale si bacia (forse il gigante è Filippo il Bello, di cui Dante parla nella settima Epistola chiamandolo il Golia - cfr. “Ad Arrigo Re dei Romani”: “Orsù dunque, rompi gl’indugi, o novella prole di Iesse, prendi l’incoraggiamento dagli occhi del Signore Dio degli eserciti al cui cospetto tu operi, e abbatti questo Golia con la fionda della tua saggezza e con il sasso delle tue forze…”). Ma, oltre ai baci, essi si scambiano frustate. La chiusa descrive il gigante che porta a forza il carro nella selva (la Chiesa nella cattività avignonese?).