Le note di sala del secondo concerto di stagione dell'Orchestra Rai

Le note di sala del secondo concerto di stagione dell'Orchestra Rai

Mario Castelnuovo-Tedesco, Franz Liszt, Béla Bartók

Le note di sala del secondo concerto di stagione dell'Orchestra Rai
Mario Castelnuovo-Tedesco
Il mercante di Venezia. Ouverture op. 76

Quando il giovane Luigi Dallapiccola, pioniere della musica dodecafonica in Italia, si trasferì a Firenze nel maggio del 1922, al Teatro Comunale veniva rappresentato per la prima volta in città Tristano e Isotta di Wagner, ben trentaquattro anni dopo la prima italiana di Bologna del 1888. Firenze non era una città modernista, ma nemmeno ignara delle novità della musica europea, come dimostra la prima esecuzione italiana del Pierrot lunaire di Schönberg diretto dall’autore l’1 aprile del 1924 a Palazzo Pitti, alla presenza niente meno che di Giacomo Puccini.

Il compositore fiorentino più in vista tra le due guerre era Mario Castelnuovo-Tedesco, allievo prediletto di Ildebrando Pizzetti e di qualche anno più anziano di Dallapiccola. La sua musica rispecchiava perfettamente questa linea di equidistanza della cultura fiorentina tra le tendenze moderniste e quelle conservatrici. Notato subito da Alfredo Casella, il musicista più aperto e internazionale dell’Italia fascista, Castelnuovo-Tedesco ammirava Stravinskij e apprezzava Schönberg ma si teneva lontano sia dal neoclassicismo parigino che dall’espressionismo viennese, inseguendo l’ideale di tradurre nella sensibilità italiana e con spirito moderno la lezione del grande Romanticismo.
Discendente di un’antica famiglia sefardita arrivata in Toscana dopo la cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492, Castelnuovo-Tedesco aveva anche un’eccellente formazione letteraria, e una profonda sensibilità per la poesia. Tra i numerosi scrittori e poeti musicati da Castelnuovo-Tedesco spicca il nome di William Shakespeare, un autore che ha accompagnato costantemente e in diverse forme tutto il suo percorso creativo. In particolare, tra il 1930 e il 1953, Castelnuovo-Tedesco compose ben undici Ouverture da concerto ispirate al teatro di Shakespeare. Questi lavori, che nell’insieme formano un ciclo ragguardevole, non sono concepiti come musiche di scena o come dei poemi sinfonici descrittivi, ma cercano piuttosto di cogliere nel linguaggio orchestrale l’essenza di determinate scene e lo spirito più profondo dei personaggi che formano la grande tragicommedia umana del teatro di Shakespeare. Non a caso la partitura riporta quasi sempre una citazione emblematica tratta dal dramma o dalla commedia relativa all’Ouverture. Nel caso di quella per Il Mercante di Venezia, scritta nel 1933 e dedicata ad Arturo Toscanini, uno dei maggiori campioni della musica di Castelnuovo-Tedesco sull’altra sponda dell’Atlantico, i versi citati sono le grida di disperazione di Shylock, accortosi che la bella figlia Gessica è fuggita di notte con Lorenzo portandosi via un cofanetto pieno di danaro e di gioielli: «O figlia mia! O miei buoni ducati! O figlia mia! Fuggita via, ohimè, con un cristiano! O miei ducati cristiani! Giustizia!… La legge!… I miei ducati e la mia figlia!». Era forse inevitabile che una figura tragica e complessa come quella di Shylock attirasse in maniera particolare l’attenzione di Castelnuovo-Tedesco, soprattutto in un momento storico così drammatico per l’ebraismo in Europa.
In Germania la salita al potere di Hitler rendeva la situazione degli ebrei disperata, ma anche in Italia la pressione antisemita cominciava a crescere. Ben prima delle leggi razziali del 1838, infatti, il fascismo aveva cominciato a disciplinare la vita delle comunità ebraiche con la Legge Falco del 1930, che imponeva l’obbligo di iscrizione all’Unione delle comunità israelitiche. In altre parole Castelnuovo-Tedesco, discendente di una famiglia di banchieri ebrei, sentiva come il personaggio di Shylock fosse ancora di sconcertante attualità. Sta di fatto che molti anni dopo aver composto l’Ouverture, quando ormai viveva a Los Angeles dal 1940 ed era uno dei più richiesti compositori di Hollywood e uno stimato docente al Conservatorio di Los Angeles, Castelnuovo-Tedesco tornò di nuovo sulla commedia di Shakespeare per ricavarne un’opera che vinse il Premio Campari indetto dal Teatro alla Scala nel 1958, rappresentata poi al Maggio Musicale fiorentino nel 1961. 
Shylock è l’assoluto protagonista dell’Ouverture, fin dal primo aspro e astioso tema all’unisono degli archi. Gli arabeschi che caratterizzano il tema rivelano immediatamente la natura diversa, orientaleggiante dell’ebreo veneziano, ma sono soprattutto gli improvvisi sbalzi d’umore, il temperamento cangiante del tema, costellato di indicazioni come Rude ed incisivo, Più dolce, Vivo e impetuoso, Furioso eccetera, a indicare le intermittenze del cuore di questo personaggio emblematico della controversa convivenza tra ebrei e cristiani, lacerato da sentimenti di odio, rancore e orgoglio
La scrittura orchestrale di Castelnuovo-Tedesco è brillante e ricca di colore, nitida come quella di Ravel e fantasiosa come quella di Rimskij-Korsakov. Il suo linguaggio è volutamente ancorato allo stile romantico ma consapevole delle conquiste timbriche e ritmiche del primo Novecento. Nel cuore dell’Ouverture il tema di Shylock si trasfigura in un episodio lirico e notturno, Andantino sereno ed affettuoso, nel quale si sviluppa un dialogo amoroso tra un violino e una viola soli, cullati da un dolce ritmo di barcarola. Ma è solo una parentesi, perché le chimere dell’amore svaniscono e ritornano, ancora più martellanti e angosciose, le ossessioni dell’inizio, che tormentano l’ebreo che ha perso tutto, figlia, ricchezze e religione, solo perché è un giudeo:
Non ha occhi un giudeo? Un giudeo non ha mani, organi, membra, sensi, affetti, passioni, non s’alimenta dello stesso cibo, non si ferisce con le stesse armi, non è soggetto agli stessi malanni, curato con le stesse medicine, estate e inverno non son caldi e freddi per un giudeo come per un cristiano? 

Franz Liszt
Concerto n. 2 in la maggiore per pianoforte e orchestra, S 125

La produzione per pianoforte e orchestra di Liszt si estende per un periodo lunghissimo, dal 1825 al 1885, in pratica dall’adolescenza fino agli ultimi giorni. In sessant’anni, però, il numero di lavori di questo genere pubblicati fu davvero esiguo, e soltanto due hanno avuto l’onore di essere definiti Concerti, non senza passare prima per un laborioso processo di revisione. Il Primo, infatti, rimaneggiato più volte tra il 1832 e il 1852, fu pubblicato solo nel 1857, mentre il Secondo in la maggiore, scritto tra il 1839 e il 1861, uscì nel 1863. Un terzo in mi bemolle maggiore, postumo, non è mai stato ritenuto degno di entrare nel catalogo. A prima vista sembra sorprendente che un artista come Liszt, il virtuoso per antonomasia, si muova con tanta circospezione nel più trascendentale dei generi musicali. Questa relazione così controversa con lo stile concertante dovrebbe indurre a una maggiore cautela nel valutare Liszt come compositore, e forse a rivedere la sua immagine, ancora ampiamente diffusa, di musicista istrionico e superficiale, dedito al vacuo virtuosismo di cattivo gusto.

Essendo anche un sommo interprete, Liszt aveva una conoscenza precisa e diretta non solo del grande repertorio classico, ma anche dei lavori ancora freschi d’inchiostro scritti dai suoi colleghi. La forma del concerto non aveva alcun segreto per Liszt, che sapeva esattamente come sfruttare nella maniera migliore le qualità del pianoforte e come evitare i tranelli dello scomodo rapporto di questo strumento con l’orchestra. 
Se il Primo Concerto rispecchia la primavera del pianoforte romantico, il Secondo mette in luce un nuovo tema delle riflessioni di Liszt, l’orchestra
Nei primi anni Trenta dell’Ottocento, Parigi era il fulcro della vita concertistica internazionale. Una schiera di giovani pianisti compositori, tra i quali Chopin, Mendelssohn, la fanciulla prodigio Clara Wieck, lo stesso Liszt s’incontrano e si scambiano i lavori, influenzandosi a vicenda. Dopo aver spremuto all’inverosimile il pianoforte per farne uscire le più sottili sfumature drammatiche e psicologiche, Liszt sente la necessità di trovare nuove forme espressive nella plasticità del suono orchestrale. Il Concerto in la maggiore, infatti, viene elaborato negli anni in cui Liszt è a Weimar come direttore artistico e responsabile dell’attività musicale del Granducato, impegnato soprattutto nella creazione di un nuovo genere musicale, il poema sinfonico. Il documento più calzante per mettere a fuoco l’importanza di questo nuovo mondo sonoro lo fornisce lo stesso Liszt, che in una lettera all’allievo Hans von Bronsart, dedicatario del lavoro e suo primo interprete l’1 gennaio 1857, impartisce delle istruzioni che per l’epoca dovevano suonare del tutto sorprendenti: «Il Concerto ti è stato mandato ieri sera, e nel caso tu decidessi di suonarlo, ti chiedo di studiarlo attentamente e, prima della prova, di suonarlo con la partitura al direttore d’orchestra, al fine di stabilire i tempi corretti dei vari movimenti, secondo i miei desiderî».
Liszt era ormai alieno dall’idea che l’orchestra fosse un mero accompagnamento del solista, desiderando invece trovare una perfetta fusione tra due dimensioni sonore diverse ma complementari 
Una delle critiche negative spesso rivolte ai lavori di Liszt, e in particolare ai suoi Concerti, riguarda una presunta vaghezza della forma. Il grande pianista Alfred Brendel ha scritto in proposito delle osservazioni particolarmente acute: «Vi è qualcosa di frammentario nel lavoro di Liszt; il suo discorso musicale, forse per la sua natura, spesso non viene concluso. Ma il frammento non è forse la forma più pura del Romanticismo, la più legittima? Quando l’utopia regna sovrana, quando si tenta d’abbracciare l’infinito, la forma deve restare aperta per accogliere l’incommensurabile».

Bisogna evitare, e questo è il delicato compito degli interpreti, di confondere il singolare organismo concepito da Liszt nel Concerto in la maggiore con uno spezzatino di frasi monche e di frammenti eterogenei.
In realtà, il benigno e sommesso corale di clarinetti e fagotti dell’inizio è un venticello che spira dolce e melanconico, ma nel corso del lavoro si gonfia e si trasforma senza pace, ora una burrasca e ora una brezza serena. Le continue pause e corone, le cesure di tempo e di tonalità, le numerose cadenze del pianoforte sparse tra un episodio e l’altro non sono segni d’incertezza e di squilibrio, ma al contrario la voce spezzata del vento che soffia dall’inizio alla fine ma con forza sempre diversa
Il ciclico ritorno del tema principale, sottoposto a un processo permanente di trasformazione, incarna la vocazione unitaria del Concerto, che rompe le forme chiuse della tradizione classica come già era successo nel lavoro precedente. Il tema non viene esposto all’inizio dal pianoforte, bensì dall’orchestra, secondo l’intenzione di Liszt di comporre un Concerto sinfonico. La fonte di questa nuova maniera di concepire la forma va cercata forse in due lavori che Liszt conosceva molto bene come interprete: la Fantasia in do maggiore D760 di Schubert, detta Wanderer-Fantasie, e il Konzertstück in fa minore op. 79 di Carl Maria von Weber, un modello per tutti gli autori romantici nel disegnare il rapporto tra pianoforte e orchestra. Era stato Schubert probabilmente a gettare nel pianoforte di Liszt il seme della forma ciclica, che germoglia nel Concerto in la maggiore e soprattutto nella Sonata in si minore. Non è superfluo forse ricordare che, negli stessi anni del Concerto, Liszt ha trascritto la Wanderer Fantasie per pianoforte e orchestra, rivelando il nesso tra Schubert e la sua visione dello stile concertante. In questa trascrizione, un violoncello solo accompagna il pianoforte nella parte centrale, così come un analogo solo di violoncello caratterizza la meditativa sezione in re bemolle maggiore al centro del Concerto. Liszt tenne presente anche il modello di Weber, per esempio nel taglio melanconico del tema principale, marcato dall’intervallo di quinta diminuita, e nella presenza di una rilevante sezione di carattere marziale, analoga al Tempo di marcia del Konzertstück.
 
Il genere del concerto collega il mondo del pianoforte con quello dell’orchestra, due regni su cui Liszt poteva rivendicare la sovranità a metà dell’Ottocento. La forma estremamente sperimentale dei suoi Concerti, soprattutto del Secondo, che nell’articolazione delle contrastanti sezioni tenta di fondere l’arco espressivo del concerto tripartito e la funzionalità della forma sonata, passa con una sprezzatura signorile da un mondo all’altro, come per imprimere bene nella scrittura, faticosa da affrontare per qualunque pianista sia dal punto di vista tecnico che musicale, il segno della grandezza e della potenza. 


Béla Bartók
Concerto per orchestra, BB 123 (SZ 116)

Presentando il Concerto per Orchestra, in occasione della prima esecuzione a Boston, l’1 dicembre 1944, Béla Bartók si sentì in obbligo di fornire qualche spiegazione circa il titolo della composizione:
Questo lavoro orchestrale simile a una Sinfonia tratta i singoli strumenti o le diverse famiglie di strumenti in una maniera abbastanza solistica o “concertante”. Questa caratteristica spiega il titolo Concerto per Orchestra. Il trattamento virtuosistico compare per esempio nelle parti in stile fugato dello sviluppo del primo movimento (ottoni), oppure nei passaggi tipo perpetuum mobile del tema principale nell’ultimo movimento (archi), e, in particolare, nel secondo movimento, in cui coppie di strumenti si mettono in evidenza con passaggi brillanti
Senza dubbio il carattere virtuosistico ha reso il Concerto per Orchestra uno dei lavori sinfonici più popolari del Novecento, amato sia dal pubblico che dalle orchestre. Oltre al carattere brillante, la sua fortuna è dovuta anche a un linguaggio accessibile e a una forma chiara e comprensibile. La critica più modernista, infatti, ha giudicato il Concerto per Orchestra un lavoro regressivo, una sorta di resa al mercato musicale, come se il prezzo del nuovo e più trasparente stile americano di Bartok fosse stato la rinuncia a ulteriori sviluppi artistici. Bartók era emigrato negli Stati Uniti allo scoppio della guerra, fuggendo da un Paese caduto nelle mani del partito fascista delle Croci Frecciate. La vita di New York, però, risultò insopportabile per Bartók, che per due anni restò in pratica disoccupato, incapace di scrivere una sola nota, sostenuto solo dall’aiuto generoso e discreto di pochi amici e ammiratori. Quando tutto sembrava volgere al peggio, ricoverato in ospedale per la malattia che l’avrebbe portato a morire un paio d’anni più tardi, Bartók ricevette all’improvviso, nel maggio 1943, la proposta di scrivere dietro generoso compenso un pezzo per la Boston Symphony Orchestra. Nel giro di pochi mesi, e fortunatamente in condizioni di salute migliori, il compositore scrisse il Concerto per Orchestra, terminato l’8 ottobre dello stesso anno. In realtà Bartók aveva trovato in questo lavoro uno sbocco creativo a una serie di idee maturate nel corso degli ultimi anni. La continuità del lavoro musicale degli anni americani, attestata da vari abbozzi del Concerto che risalgono a prima della richiesta di Boston, dimostra che lo stile dell’autore si stava evolvendo da tempo in una direzione diversa, rispetto alle sofisticate e complesse composizioni degli anni Trenta, come la Musica per archi, percussioni e celesta o il Quinto Quartetto.
L’uso di forme musicali più semplici e squadrate segna non solo la tendenza dell’epoca verso una sorta di neoclassicismo generato dal consumo musicale di massa, ma indica anche, forse, il desiderio di una forma sinfonica di ampio respiro e di carattere narrativo
Il percorso del Concerto, infatti, mostra un graduale passaggio da un risveglio iniziale della volontà all’affermazione vittoriosa della forza vitale, passando attraverso la coscienza della morte nel tragico terzo movimento. Bartók arricchisce il discorso con l’aggiunta di due movimenti fantasiosi come “Giuoco delle coppie” (in origine avrebbe dovuto intitolarsi “Presentando le coppie”) e “Intermezzo interrotto” (entrambi i titoli in italiano), che rispecchiano l’attrazione del musicista ungherese per le forme simmetriche.
 
Un’altra caratteristica peculiare del mondo di Bartók è ovviamente la musica popolare, che si affaccia in maniera piuttosto sofisticata nel Finale, con tocchi di colore strumentale derivati dalla musica contadina rumena.
Bartók ha scritto in questa pagina un capolavoro di grande forza emotiva, che contiene momenti di sublime poesia, quali l’introduzione lenta del primo movimento e l’Elegia, così come musica di eccezionale energia nel Finale, una fucina di ritmi incandescenti alimentata da un pensiero contrappuntistico originalissimo
Tuttavia, la difficoltà di accettare l’idea di un finale pienamente consolatorio indusse Bartók a far pubblicare due diverse versioni delle ultime battute, lasciando all’interprete la scelta. La maggior parte dei direttori esegue la versione più eroica, che in pratica ha soppiantato l’altra, ma l’esistenza di un finale più asciutto e austero dimostra il carattere genuino di quella tensione tra il bene e il male, che il Concerto per Orchestra si sforza di portare alla luce dalla prima all’ultima nota.