Le note di sala del concerto inaugurale dell'Orchestra Rai

Le note di sala del concerto inaugurale dell'Orchestra Rai

Stagione sinfonica 2024/2025 - Giovedì 17 e venerdì 18 ottobre Auditorium Rai di Torino

Le note di sala del concerto inaugurale dell'Orchestra Rai
Ludwig van Beethoven
Concerto in re maggiore per violino e orchestra op. 61

Il Concerto in re maggiore op. 61 fu eseguito per la prima volta a Vienna il 23 dicembre 1806: solista il celebre virtuoso Franz Cle¬ment, ammiratissimo da Beethoven, che gli aveva dedicato il lavoro con un curioso giuoco di parole poliglotta, "Concerto per Clemenza pour Clement”. Sembra però che Clement non si fosse scaldato troppo per il capolavoro che gli era stato affidato: non ci si impegnò a fondo, giunse al punto di interromperne l'esecuzione fra primo e secondo tempo per suonare un pezzo di bravura che non ci aveva nulla a che fare. Le accoglienze non furono molto cordiali, e il Concerto fu presto dimenticato. Inutilmente Beethoven ne realizzò l'anno seguente, dietro richiesta di Muzio Clementi, una trascrizione per pianoforte. Lo riesumò Felix Mendelssohn-Bartholdy, che lo diresse a Londra nel 1844, solista un giovanissimo Joseph Joachim, che dieci anni dopo ne avrebbe dato un'altra memorabile interpretazione a Düsseldorf insieme con un altro direttore d'eccezione, Robert Schumann. Dopodiché prese stabile dimora fra i capolavori più celebri e amati da interpreti e pubblico.
A Beethoven il violino suggerì spesso un lirismo più disteso del solito, non privo di compiacimenti esornativi e con una naturale eleganza di modi
Ma il Concerto op. 61 appartiene anche al suo “periodo di mezzo”, quello più eroico e drammatico: quindi piacevolezza e cantabilità bilanciano costruzione impegnativa ed espressività vigorosa. Così il primo movimento è aperto dal sinfonismo robusto dell'introduzione orchestrale, avviata dalla pulsazione misteriosa e suggestiva dei cinque colpi di timpano, un segnale insieme oscuro e imperioso che poi si ripete spesso dialogando con elementi più lirici
Il violino solista si espande in un canto trasparente nel registro acuto, si produce in espansioni virtuosistiche, ma si fonde anche con naturalezza con il tessuto denso dell’orchestra, a sua volta adagiata in un’effusione melodica generosa ma sempre incisiva
In questo quadro è possibile inserire una cadenza ampia e virtuosistica, come quelle che via via scrissero i violinisti più celebri, da Joachim stesso a Ferdinand David e a Fritz Kreisler.

Molto intenso il movimento centrale, un Larghetto articolato in un dialogo fra lo strumento solista e l'orchestra, che si scambiano un motivo dolce ed espressivo all’estremo, in un clima di poesia trasognata creato da una timbrica rarefatta e sfumata. Un'altra cadenza del solista introduce al Finale, senza soluzione di continuità: un ritmo balzante, quasi di danza, annunciato dapprima quasi di soppiatto dal violino, poi ripreso con scatto travolgente da tutta l'orchestra. Il solista dialoga con un'orchestra leggera e vivace, a volte con allusioni naturalistiche un po’ come nello Scherzo della Sinfonia Pastorale: i diversi episodi sono legati l'uno all'altro da un impulso ritmico che percorre inarrestabile tutta questa struttura breve e ben proporzionata.


Ludwig van Beethoven
Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore, op. 55 “Eroica”

L’autografo dell’Eroica e andato perduto: chi lo vide sul tavolo di Beethoven appena terminata la composizione, che l’aveva impegnato per un paio d’anni a partire dal 1802, ci dice che recava solo un titolo, Bonaparte, e la firma italianizzata “Luigi van Beethoven”; ma che quando arrivo a Vienna la notizia che Napoleone il 16 maggio 1804 si era proclamato imperatore dei francesi, Beethoven infuriato fece a pezzi la prima pagina. Una copia d’epoca reca scritto, chissà da chi, “Sinfonia grande”, e sotto, pressoché illeggibile per la cancellatura che quasi lacera il foglio, “intitolata Bonaparte”.

La prima edizione, nel 1806, fece conoscere l’opera con il titolo definitivo, in italiano: Sinfonia Eroica composta per festeggiare il sovvenire di un grand’uomo. Che cosa autore e/o editore, entrambi di lingua tedesca, intendessero per “sovvenire” nonè chiarissimo: difficilmente “memoria”, ”souvenir” (a noi italiani quando pensiamo a  Napoleone è impossibile non ricordare Alessandro Manzoni: “stette, e dei dì che furono / l’assalse il sovvenir”). Ma nel 1806 Napoleone oltre a essere ben vivo era senz’altro sulla cresta dell’onda, e certo di lui non si poteva parlare al passato, più probabilmente “arrivo”, “ingresso sulla scena della storia”. Sta di fatto che al di là del riferimento specifico a Bonaparte, tutto nella Terza, dalla forma allo stile, dalle intenzioni extramusicali, che comunque sono evidenti, al trattamento dell’orchestra, configura qualcosa di eroico in sé, prima ancora che una recensione dell’ideale dell’eroe come poteva vederlo, classicamente, quell’Illuminismo dal quale era scaturita la moralità artistica e umana di Beethoven. E se riusciamo per un istante ad allontanarci dall’ombra fin troppo ingombrante di Bonaparte quel che ci stuzzica di più nel titolo originario e quel “Sinfonia grande”, più tardi sostituito da “Sinfonia eroica” dirottando la categoria della grandezza su un “uomo” non meglio precisato (fra l’altro, nel frattempo, Napoleone aveva sbaragliato l’esercito austriaco ad Austerlitz e occupato militarmente Vienna, il che rendeva comunque inopportuno un riferimento troppo esplicito). 

La Terza Sinfonia infatti è grande nelle proporzioni, oltre che grandiosa nelle intenzioni. Il primo tempo e reso specialmente ampio da una condotta formale inedita. Il tema principale è annidato già nelle due strappate iniziali che qui spazzano via imperiosamente il ricordo delle introduzioni lente di tante sinfonie precedenti di Joseph Haydn o di Wolfgang Amadeus Mozart o di Beethoven stesso:
i tre suoni dell’accordo di mi bemolle maggiore che vi si odono simultaneamente si sciolgono subito appunto nel primo tema, un motivo elementare che sembra girare su sé stesso per ricadere dall’alto verso il basso, e in questa forma attraversa tutto l’itinerario esposizione – sviluppo – ripresa tradizionale della forma sonata bitematica
Ma muta poi faccia durante la coda sterminata che viene a prolungare l’architettura del movimento, nella quale il ripiegamento vero il basso si bemolle – mi bemolle e sostituito dallo slancio rampante della ripetizione del suono più acuto: ribadendo con questa trasformazione il carattere appunto eroico del pezzo. Il tutto, qui come in tutta la sinfonia, in uno stile effettivamente rivoluzionario.
Brevità e plasticità dei motivi corrispondono all’eloquenza quasi aggressiva del suono dell’orchestra
Ampliata ad accogliere un terzo corno accanto ai due abituali, e improntata a una severità certo memore della severità tipica di certa musica francese di allora, e specialmente di quel Luigi Cherubini di cui Beethoven fu ammirato estimatore, la strumentazione è ulteriormente modernizzata da un nervosismo ritmico e da una irregolarità dinamica tese ad aumentarne la conflittualità: anche attraverso l’impiego ancora una volta nuovo di trombe e timpani, definitivamente emancipati dal vecchio ruolo di sottolineatura ritmica e timbrica, resi reciprocamente autonomi e protagonistici. Nuova, significativa, e determinante nella dilatazione dell’architettura complessiva, anche la concezione della coppia dei movimenti centrali: sottratta alla complementarità fino allora abituale di un semplice Andante e di un Minuetto, soltanto dalla sinfonia precedente, la Seconda, sostituito da un più movimentato Scherzo, e orientata verso una divergenza quasi violenta.

Il titolo di Marcia funebre (già impiegato pochi anni prima nella Sonata op. 26 per pianoforte, che anzi esplicita il suo terzo movimento come Marcia funebre sulla morte di un eroe) imposto al secondo, così come il suo procedere, che da una marcia vera e propria, seppure stilizzata nelle evocazioni quasi spettrali di rulli di tamburi, con tanto di Trio centrale e ripresa, passa attraverso l’inserzione di sviluppi di  intensità vertiginosa ad autentiche visioni  tragiche, proponendo alle epoche successive quella categoria dell’Adagio che sarà poi ripresa dal tardo Romanticismo.
Ampio, drammatico, psicologicamente densissimo, l’Adagio assai trova un contrasto netto in uno Scherzo ritmicamente scatenato, proiettato in un’esaltazione metafisica dal Trio, ribollente di corni in passi ancora una volta esplicitamente eroici, come eroico è l’impegno qui richiesto agli strumentisti, esposti in passaggi non poco rischiosi
Non meno eloquenti ruolo e condotta del Finale: un tema con variazioni, che modula verso la dimensione eroica anche uno schema costruttivo all’epoca visto come occasione per decorare amabilmente o virtuosisticamente un materiale di partenza preferibilmente tranquillo e melodioso. Qui il tema ha un’identità prevalentemente ritmica, che sembra condizionare alla mobilita e all’entusiasmo tutto il corso delle variazioni. Ma è la sua provenienza a parlarci chiaramente, dato che Beethoven lo ricavò dal balletto Le creature di Prometeo, da lui composto a inizio secolo per un coreografo celebre, Salvatore Vigano: quasi a chiarire la dimensione umanistica e umanista del suo eroe ideale, qui identificato con il protagonista del mito greco, punito per aver recato il fuoco agli uomini sottraendolo al monopolio divino ma al tempo stesso reso immortale, rendendo possibile una rilettura “a ritroso” della stessa Marcia funebre.  

Il peso concettuale di questo movimento giunge quasi a bilanciare quello costruttivo ed emozionale del primo: non siamo ancora in presenza di quel rovesciamento di ruoli rispetto a una concezione classica basata sul valore simbolico e di trascinamento dinamico del primo tempo che porta molte delle sinfonie successive di Beethoven (Quinta, Sesta e, clamorosamente, Nona) ad apparire costruite, con chiara drammatizzazione della forma, in funzione della conclusione; ma certo il compito assolto da questo Finale è quello di siglare un eroismo della forma e dello stile non meno che di celebrare, appunto nello spirito della danza, la sublimazione dell’eroismo di un “grand’uomo” di valore universale, ormai esentato dalla limitazione contingente di un nome e cognome precisi.

Daniele Spini
(dagli Archivi Rai)