Le note di sala del sesto concerto di stagione dell'Orchestra Rai

Le note di sala del sesto concerto di stagione dell'Orchestra Rai

Antonín Dvořák e Richard Strauss

Le note di sala del sesto concerto di stagione dell'Orchestra Rai
Antonín Dvořák
Concerto in si minore per violoncello e orchestra op. 104

Il 5 giugno 1891 Dvořák ricevette un telegramma sbalorditivo: avrebbe accettato di dirigere il Conservatorio Nazionale di Musica di New York? Il messaggio era firmato da Jeannette Thurber, moglie di un facoltoso uomo d’affari e intraprendente patrona delle arti e della musica. Mrs. Thurber, figlia di un violinista amateur di nome Meyer, aveva studiato al Conservatorio di Parigi, dove manteneva eccellenti relazioni con l’ambiente musicale. Come mai si rivolgeva a un musicista di Praga, popolare ma tutto sommato non di primissimo piano? La reputazione di Dvořák negli Stati Uniti era decisamente in crescita, grazie soprattutto all’attivismo e alle relazioni del suo editore inglese Henry Littleton, ma le ragioni che indussero a insistere sul suo nome sono da cercare in un disegno culturale più ampio.

I fautori del Conservatorio Nazionale desideravano promuovere un’arte musicale americana, indipendente dalle forme della tradizione europea. L’istituto avrebbe dovuto aiutare gli artisti del Paese a esprimere uno stile nuovo, che affondasse le radici nella musica popolare americana, dunque nel mondo dei cosiddetti nativi americani e degli afro-americani.
New York stava diventando una delle capitali della musica a livello internazionale, surclassando le altre città della costa. L’ascesa del Metropolitan Opera House e la presenza di numerosi artisti di prima qualità rendevano effervescente la scena musicale di New York
Uno dei personaggi chiave della fiorente vita musicale della metropoli era il direttore ungherese Anton Seidl, fervente apostolo della musica di Wagner, nominato nel 1883 alla guida del Metropolitan e qualche anno dopo della NY Philharmonic Orchestra. Fino al momento della precoce scomparsa, nel 1898, Seidl fu il padrone assoluto della musica cittadina. Suo protegé e primo violoncello dell’orchestra era un prolifico musicista d’origine irlandese, Victor Herbert, autore di operette di successo e di molti lavori strumentali. Tra questi figurava il Secondo Concerto in mi minore per violoncello, presentato a Brooklyn nel 1894. Il Concerto – e forse anche la maniera di suonare di Herbert – lasciò una profonda impressione su Dvořák, ispirandogli la composizione di un analogo lavoro, terminato negli ultimi mesi della sua permanenza in America. La decisione di scrivere un’opera di questo genere sorprese lui stesso per primo, come confessa candidamente in una lettera all’amico Alois Göbl:
Ho giusto finito il primo movimento di un Concerto per violoncello!! Non essere sorpreso, io stesso sono abbastanza stupito e meravigliato di essere stato così determinato nel portare avanti un tale lavoro
Dvořák, infatti, era convinto che la sfera ideale del violoncello fosse l’orchestra e la musica da camera, non la vocazione solistica. In contrasto con questa idea, espressa prima e anche dopo la stesura del suo capolavoro, nella sua produzione si trovano invece diversi lavori per violoncello solista, e persino uno scheletro nell’armadio, ovvero un Concerto in la maggiore scritto negli anni Sessanta e rimasto nel cassetto fino al 1925, quando il manoscritto fu ritrovato tra le carte del compositore. Tutti questi lavori, a eccezione del precoce Concerto, nascevano dall’amicizia con Hanuš Wihan, uno dei maggiori virtuosi dell’epoca e fondatore del leggendario Quartetto Ceco, che gli aveva chiesto più volte di scrivere un concerto per lui. Impressionato dal lavoro di Herbert, Dvořák decise di esaudire il desiderio dell’amico. Il compositore chiese consiglio a Wihan per la scrittura solistica, ma scartò la maggior parte delle proposte, in particolare l’idea d’inserire due lunghe cadenze. A tale proposito Dvořák fu categorico, scrivendo all’editore che avrebbe ceduto il lavoro solo a condizione che nessun solista, “neppure il mio amico Wihan”, apportasse cambiamenti alla partitura.
La fisionomia del Concerto infatti doveva mantenere rigorosamente il carattere sinfonico messo in luce per esempio dal Concerto per violino di Brahms. Non a caso il vecchio amico e mentore espresse un giudizio molto positivo sul lavoro, in una lettera all’editore Simrock del 1896:
Ma i violoncellisti possono essere grati al vostro Dvořák per aver assegnato a loro un lavoro di tale grandezza e maestria. Mi sembra migliore e anche più d’effetto dei suoi Concerti per pianoforte e per violino
Il Concerto per violoncello mostrava senza dubbio un riavvicinamento al mondo di Brahms. La forma del primo movimento, Allegro, mostra infatti un disegno e una chiarezza di stampo classico, malgrado sia trattata in maniera molto libera e naturale. I temi principali, tra i più felici di Dvořák, si distinguono in maniera perfetta per carattere e colore del suono: eroico e appassionato il primo, lirico ed elegiaco il secondo, intonato dalla voce romantica di un corno. Il breve ma intenso sviluppo usa solo il materiale del primo tema, raggiungendo momenti di toccante espressione nella trasformazione del motivo eroico iniziale in un dialogo intimo e doloroso tra il violoncello solista e un flauto. L’abbondante presenza del tema principale induce l’autore a riprendere l’esposizione direttamente dal secondo tema, che però acquista anche qualcosa del carattere vigoroso del primo. L’ultima pagina del manoscritto reca una annotazione interessante:
Ho finito il Concerto a New York, ma quando sono tornato in Boemia ho cambiato completamente il finale nella maniera in cui si presenta adesso. Pisek, 11 giugno 1895
Il motivo che aveva spinto Dvořák a rivedere la parte finale era la scomparsa della cognata, Josefina Kaunitzová, sorella maggiore della moglie. Lo spirito di Josefina, primo grande amore del musicista, aleggia in molti punti del Concerto, in particolare nell’Adagio ma non troppo. Qui compare la citazione di una delle sue canzoni favorite, la prima della raccolta Čtyři Písně op. 82, intitolata Kéž Duch Můj Sám (Lascia soltanto sognare il mio animo). Ma il cuore dell’Adagio si colora di tinte drammatiche con un episodio in sol minore, che allude alla tragica solennità di una marcia funebre. L’Allegro moderato finale, pur conservando il carattere sinfonico voluto dal compositore, manifesta in maniera più evidente le inflessioni della musica popolare ceca e assegna al violoncello in forma più decisa il ruolo di leader. È il solista infatti questa volta non solo a introdurre il tema principale, ripreso poi dall’orchestra, ma anche a condurre il filo del discorso durante l’intero movimento. Tuttavia il finale immaginato dal compositore va in direzione opposta al genere di concerto spettacolare amato dai virtuosi, che concentrano alla fine i numeri migliori del loro repertorio di bravura. L’epilogo voluto da Dvořák conferisce invece poesia al lavoro, che rappresenta senza dubbio una sorta di requiem per una persona molto amata
Il canto del violoncello si estingue poco a poco, dopo alcune delicate reminiscenze del primo e del secondo movimento, ma un vibrante crescendo dell’orchestra, come uno stormo di uccelli levati in volo all’improvviso, riaccende la fede in una vita al di là della morte, conducendo il Concerto a una chiusura luminosa

Richard Strauss
Tod und Verklärung, poema sinfonico op. 24 (Morte e trasfigurazione)

In una misera stanzetta un artista ammalato lotta disperatamente contro la morte. Le ultime ore dell’agonia sono ormai imminenti; il dolore è insopportabile; ma un breve istante di tregua consente all’individuo di ripensare all’esistenza passata, alla fanciullezza, all’adolescenza, alla maturità: gioie, dolori, sogni vanamente inseguiti. Proprio a due passi dal capolinea, l’uomo si rende conto di non aver mai trovato ciò che cercava, di aver rincorso per tutta la vita obiettivi irraggiungibili.
La salvezza non può che venire dall’aldilà: la terra è destinata alla sofferenza, alla sistematica frustrazione di ogni desiderio cognitivo
Solo l’esperienza irrazionale della trasfigurazione è in grado di elevare l’uomo dalla sua aberrante esistenza; ed è quella luce abbagliante a rendere l’agonia un momento di inafferrabile estasi. Fu lo stesso Strauss, nel 1889, a pensare di scrivere un poema sinfonico sui temi della morte e della trasfigurazione. Ma toccò ad Alexander Ritter, a stesura già iniziata, il compito di estrapolare da quel vago nucleo semantico un poema in versi, da accompagnare alla circolazione della partitura. Strauss aveva idee piuttosto chiare in merito alle categorie del poema sinfonico:
Musica a programma: vera musica. Musica assoluta: composizione possibile per qualsiasi musicista dotato di un mestiere passabile! La prima è vera arte. La seconda routine
I vincoli imposti all’immaginazione del fruitore erano un’esigenza ineliminabile della sua riflessione estetica: un testo d’accompagnamento doveva essere presente sia in sala da concerto che nell’introduzione alla partitura. E il 21 giugno del 1890, presso lo Stadttheater di Eisenach, il pubblico si trovò tra le mani un poema denso di particolari macabri («un capolavoro del kitsch», secondo Quirino Principe), che insisteva, con compiaciuta voluttà, sugli aspetti più repellenti dell’agonia. I temi si muovono tra l’aspirazione sistematicamente frustrata dell’individuo romantico e l’esasperazione materialistica del pensiero decadente. E la musica illustra dettagliatamente il percorso di idee e di emozioni del testo poetico. Strauss sfrutta a fondo la sua tavolozza sonora, sperimentando combinazioni imprevedibili pur di chiarire i lineamenti del suo pensiero sinfonico. In apertura si ha quasi l’impressione di sentire il respiro affannoso del morituro, intervallato da leggiadre reminiscenze nei legni di un tempo ingenuo e spensierato. Gli improvvisi scoppi sonori affidati ai timpani aggrediscono l’ascoltatore come dolori acuti e lancinanti. Il ritmo non riesce a rallentare il suo battito, sopraffatto dalla concitazione e dagli spasmi. Solo la prefigurazione tematica della trasfigurazione offre all’ammalato una breve, ma intensa, luce di speranza. Dopo un lungo sviluppo, nel quale si rimescolano le idee esposte nella prima parte (il viaggio à rebours dell’individuo agonizzante), la morte comincia a cambiare volto: l’affanno ritmico si spegne su una serie di tristi rintocchi del timpano, e pian piano si compie la liturgia dell’anima che abbandona il corpo per elevarsi a contemplare il trascendente in tutta la sua accecante luminosità.

Richard Strauss
Till Eulenspiegels lustige Streiche da un’antica storia picaresca, in forma di rondò op. 28 (Tiri burloni in musica)

Cavalcare tra le donne di un mercato distruggendo tutto, travestirsi da cappuccino per dare consigli morali ai monaci, morire impiccato senza rinunciare a un ennesimo sberleffo. Questo e molto altro è Till Eulenspiegel, il personaggio che si agita in maniera rocambolesca nel poema sinfonico di Richard Strauss. Difficile trovare un tema più efficace per dipingere un personaggio così complesso, perennemente in bilico tra il monello e il rivoluzionario. Basta la melodia che lo accompagna per definire una carta d’identità indimenticabile.
Strauss fu affascinato dal personaggio malizioso nell’aprile del 1889 assistendo all’opera omonima di Cyrill Kistler. Fu quello il momento in cui nacque l’ispirazione di Till Eulenspiegels lustige Streiche (I tiri burloni di Till Eulenspiegel). Dopo il colore mediterraneo di Aus Italien, il vitalismo ineffabile di Don Juan e la riflessione esistenziale di Tod und Verklärung, Strauss sentiva l’esigenza di lavorare su un soggetto burlesco. L’intenzione iniziale era quella di fare un’opera teatrale; poi un poema sinfonico si rivelò più adatto alla natura parodica del soggetto. La partitura fu completata tra il 1894 e il 1895; e venne eseguita per la prima volta in pubblico la sera del 5 novembre 1895 a Colonia, sotto la direzione di Franz Wüllner.
La fisionomia narrativa è chiara fin dalle prime battute. Strauss utilizza un tono serioso solo alla fine e all’inizio della composizione, proprio con l’intenzione di incorniciare una vicenda leggendaria tra le parole di un narratore; un “c’era una volta” introduttivo e una morale finale.
Poi, ecco entrare in scena Till, l’eroe nazionale fiammingo del Quattrocento passato alla storia per le sue bizzarre bravate alla gente per bene. Un tema del corno, tutto appoggiature e staccati scherzosi, tratteggia il suo volto astuto e mattacchione; ma gli fa eco un’altra idea, altrettanto sfrontata, disegnata dal timbro nasale dei clarinetti
Fatte le presentazioni, la burla può avere inizio: Till parte alla carica tra i banchi di un mercato, fracassando vasi e ceste stracolmi di manufatti preziosi. Poi, travestito da cappuccino, prende le vesti del violino solista tra le quiete cantilene di un monastero appartato: i suoi discutibili consigli morali diretti ai frati svelano una natura impertinente, costringendo l’orchestra a gridare con tutta la sua forza l’identità tematica del protagonista. Ma la violenza inferta alla spiritualità del monastero lascia segni profondi; e non basta uno sghignazzante giro di valzer per salvare l’empio sacrilego. Un processo in piena regola, con tanto di fanfare e rulli di timpani, condanna all’impiccagione le risposte scanzonate dell’imputato. L’anatema scagliato dai tromboni fa paura; ma Till non cede nemmeno di fronte alla morte; e un ultimo gestaccio melodico, direttamente rivolto al gregge di chi non si pone mai alcuna domanda, lo accompagna fieramente sul patibolo.

(Dagli archivi Rai)