Le note di sala del primo concerto dei trent'anni dell'Orchestra Rai

Le note di sala del primo concerto dei trent'anni dell'Orchestra Rai

Sul podio Andrés Orzoco-Estrada

Le note di sala del primo concerto dei trent'anni dell'Orchestra Rai
Richard Strauss
Der Rosenkavalier, op. 59
Suite dall’opera

La prima collaborazione fra Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal, il più grande dei suoi librettisti, aveva dato origine a Elektra, rappresentata nel 1909. Una ripetizione in termini più aspri e meno estetizzanti l’esperienza di Salome, creata invece musicando direttamente la traduzione tedesca del dramma di Oscar Wilde: in entrambi i casi proseguendo seppure in termini del tutto originali l’ideale ottocentesco del dramma musicale sull’esempio non ancora lontanissimo di Richard Wagner. Ma subito dopo Elektra Hofmannsthal indirizzò Strauss verso la dimensione tutta moderna di una commedia nutrita di citazioni raffinatissime, di sorrisi e nostalgie, di sguardi a ritroso: un’astensione da sentimenti forti che era anche sottile sfiducia nel futuro, come si conveniva a una civiltà che più o meno consapevolmente stava scivolando verso la fine. Nacque così Il cavaliere della rosa, per la prima volta in scena al teatro di corte di Dresda il 26 gennaio 1911.
Nella Vienna tutta stucchi e cristalli del tempo di Maria Teresa si dipana una vicenda traboccante di allegorie: un caleidoscopio nel quale in ogni personaggio in ogni situazione possiamo riconoscere anche un simbolo. Appartengono alla più alta aristocrazia la Marescialla, donna matura, e il suo amante, il diciassettenne conte Octavian (un mezzosoprano: come già il Cherubino delle Nozze di Figaro). Il barone Ochs, cugino della Marescialla, volgare e ridicolo, vede invece il suo privilegio sociale incrinato da problemi finanziari, e pensa di mettersi al riparo sposando una ragazza di classe borghese ma ricca, Sophie. Qui Hofmannsthal si inventa di sana pianta la tradizione che un parente dello sposo vada a offrire alla sposa una rosa d’argento. La Marescialla consiglia a Ochs di affidare il compito a Octavian: ma fra lui e Sophie sarà amore a prima vista. Fra burle e travestimenti l’opera giunge a un fine lieto per i due ragazzi, malinconico per la Marescialla, che capisce che è giunto il momento di fare un passo indietro.
Un libretto favoloso, rivestito da Strauss con una musica fra le sue più felici, di volta in volta brillante e commovente, in un equilibrio perfetto fra sentimento e comicità, fra eros e arguzia: un tocco geniale è la presenza nella partitura di molti valzer, nello stile degli altri Strauss, all’epoca ancora attuale
La Suite ricavata dall’opera non si sa bene da chi, ma approvata da Strauss, si apre con la musica della scena introduttiva, che vede Octavian e la Marescialla dialogare dopo una notte d’amore, e prosegue con l’arrivo a casa Faninal di Octavian, principe azzurro in piena regola, il valzer di Ochs, il terzetto finale, pagina fra le più fascinose di Strauss, e altri valzer ricavati dal II atto.


Igor Stravinskij
L'oiseau de feu. Suite dal Balletto op. 20 (vers. 1919)

Era un ragazzo di ventotto anni appena compiuti, il compositore che la sera del 25 giugno 1910 all’Opéra di Parigi balzò all’onore delle cronache per il grande successo della musica da lui scritta per L’Oiseau de feu, balletto fantastico in due quadri di Mikhail Fokine. Sergej Djagilev, l’impresario dei Ballets Russes, aveva visto giusto, scegliendo un giovane ancora sconosciuto, dopo aver ascoltato a Pietroburgo le uniche partiture veramente importanti fino allora da lui prodotte, lo Scherzo fantastico e Fuochi d’artificio: dapprima gli aveva affidato l’orchestrazione di alcuni pezzi di Chopin per la sua stagione, ma presto era arrivato a chiedergli la musica per un grande balletto, ispirato a una delle fiabe popolari russe più celebri. Dopo quella serata Igor Stravinskij sarà qualcuno, in patria ma soprattutto in campo internazionale, e arriverà presto a imporsi come uno dei protagonisti della vita musicale del Novecento. 

Il soggetto dell’Uccello di fuoco era quanto mai adatto a dare al pubblico occidentale quell’immagine favolosa e orientale che agli occhi di molti allora si identificava con il nome stesso della Russia: il principe Ivan cattura nel giardino magico del perfido mago Kašej l’Uccello di fuoco, sola creatura capace di combatterlo, per poi liberarlo in cambio di una delle sue piume. Incontra poi tredici principesse, prigioniere del mago, e si innamora di una di loro. Riuscirà a sfuggire a Kašej agitando la piuma lasciatagli dall’Uccello di fuoco, che poi compare, addormenta tutti cantando una ninna-nanna e spezza l’incantesimo che rende immortale il mago. Tutti sono liberati, il principe e la principessa si sposeranno. Da buon allievo di Nikolaj Rimskij-Korsakov, mago (buono, però!) fra i più geniali dell’orchestra del tardo Ottocento, Stravinskij, stende una partitura addirittura prodigiosa per ricchezza melodica, impiego del colore strumentale, evidenza narrativa, vivacità ritmica.
Sarà il trionfo ultimo e massimo della scuola nazionale russa, e al tempo stesso il segno del suo superamento in vista di una modernità problematica e aspra della quale Stravinskij stesso sarà fra i protagonisti con i balletti immediatamente successivi, Petruška e Sagra della primavera, composti sempre per Djagilev in quegli ultimi, pochissimi e formidabili anni precedenti la Prima guerra mondiale e la fine della vecchia Europa, nonché dell’impero russo. Destinato a un’orchestra enorme, l’Oiseau de feu non tardò a conquistarsi un posto di primo piano anche nel repertorio sinfonico, aprendo una storia vissuta da tante altre grandi partiture del primo Novecento destinate alla danza, e proprio per questo segnate da un dinamismo e da una libertà di scrittura eccezionali. Merito soprattutto della suite che Stravinskij ne ricavò nel 1911, ma ancor più in quella prodotta nel 1919, dopo essersi definitivamente allontanato dalla Russia: diversa sia nella successione dei pezzi sia – soprattutto – nell’orchestrazione, sensibilmente ridotta senza perdere niente in fatto di colore ed estroversione dinamica.
I cinque pezzi che la compongono sono un’Introduzione di cui è protagonista l’Uccello di fuoco, Il Khorovod della Principessa, che prende il nome da una danza popolare russa, l’esplosiva Danza infernale di Kašej, la Ninna-nanna, forse la melodia più indimenticabile creata da Stravinskij, e il Finale, nel quale una strumentazione esplosiva e smagliante sottolinea plasticamente l’esplosione di ritmi e di idee melodiche e armoniche scatenata a festeggiare la vittoria del bene sul male
Daniele Spini
(dagli archivi Rai)


Maurice Ravel
Boléro

Nell’estate del 1928 Ravel aveva voglia di Spagna. La ballerina lda Rubinstein si era fatta avanti con la richiesta di un balletto, basato su alcune pagine di lsaac Albéniz (tratte dalla raccolta pianistica Iberia): Ravel avrebbe dovuto orchestrare sei brani per un progetto coreografico in programma all’Opéra di Parigi. Nella sua vita inoltre c’era un nuovo amico, un pianista e compositore cubano di nome Joaquín Nin, che, guarda caso, possedeva proprio una splendida casa sulla costa basca, a Saint-Jean-de Luz, la terra in cui Ravel sentiva da sempre di affondare le sue radici. Fu in quella località piena di villeggianti che i due musicisti finirono sul discorso di Albéniz, Ida Rubinstein e del balletto ispirato al variopinto mondo della cultura iberica. Joaquín Nin, tuttavia, si trovò costretto a mettere in guardia Ravel: l’orchestrazione di Iberia era già stata assegnata, con tanto di esclusiva, a Enrique Arbós. Ravel non ne sapeva nulla e rispose con un bel: «Me ne infischio, e poi chi sarebbe questo Arbós?». L’ignoto musicista era un allievo di Albéniz, uno che era stato talmente vicino al maestro da trasformarsi in una sorta di curatore testamentario; ed era stato lui a ricevere l’incarico ufficiale di orchestrare i brani pianistici di Iberia.

Qualche giorno dopo una busta partiva da Saint-Jean-de Luz in direzione della vedova Albéniz: una lettera di autorizzazione a procedere con il lavoro, nonostante gli impegni precedentemente presi con Arbòs. Ma la risposta tardò ad arrivare, e qualche mese dopo Ravel aveva già cambiato i suoi progetti. Poco importava che nel frattempo il povero Arbós si fosse affrettato a lasciare il passo al più blasonato collega; Ravel ormai aveva già in testa una nuova idea, e la sua voglia di Spagna stava prendendo l’aspetto del Boléro:
Nessuna forma nel vero senso della parola, nessuno sviluppo, nessuna o quasi nessuna modulazione; un tema simile a quelli di Padilla (il volgarissimo autore di Valencia), ma solo ritmo e orchestra
Accantonato il progetto di Iberia, Ravel avvertiva ancora il desiderio di sfidare il suo talento di orchestratore: una «tessitura orchestrale senza musica», stando alle parole dello stesso autore, che doveva ripetere insistentemente un paio di temi — molto simili — sommando progressivamente tutte le voci dell’orchestra, fino a raggiungere un roboante effetto di insieme. «I temi sono del tutto impersonali», tenne a precisare Ravel, perché l’interesse della pagina risiede tutto nel timbro, una sorta di magma in continua evoluzione, da seguire con quello stordimento allucinogeno che può solo produrre un ritmo (quello di bolero appunto) ostinato e inarrestabile dalla prima all’ultima nota.

La prima esecuzione all’Opéra di Parigi, il 22 novembre 1928, nella versione danzata da Ida Rubinstein, fu poco più che un successo di stima; ma fu in sala da concerto, e ancor più in sede discografica, che il Boléro seppe raccogliere un successo senza precedenti (ben 25 incisioni nel giro di soli dieci anni).
La pagina trasforma l’orchestra in un palcoscenico vivente; l’organico è enorme, eppure ogni strumento si ritaglia lo spazio per un’esposizione solistica
Ma soprattutto Ravel riesce nell’impresa di incatenare l’ascoltatore a una partitura che non fa altro che iterare le stesse melodie (un tema e un contro-tema) per una ventina di volte; la musica, proprio come un orologio che non torna mai sullo stesso istante pur essendo mosso da un meccanismo ripetitivo, va avanti riutilizzando materiale già ascoltato. Ravel eleva così un monumento al principio retorico dell’unità nella varietà, dimostrando a tutti, anche agli ascoltatori più distratti, che grazie a un genio può sembrarci sconosciuto anche ciò che abbiamo appena finito di conoscere.

Andrea Malvano
(dagli archivi Rai)