Le note di sala del settimo concerto di stagione dell'Orchestra Rai

Le note di sala del settimo concerto di stagione dell'Orchestra Rai

Théodore Akimenko, Aram Il'ič Chačaturjan, Antonín Dvořák

Le note di sala del settimo concerto di stagione dell'Orchestra Rai
Théodore Akimenko 
La nymphe larmoyante

I primi decenni del Novecento furono un periodo di risveglio culturale in Ucraina, all’epoca una regione del vasto Impero russo. Una generazione di artisti arrivati alla maturità attorno alla svolta del secolo, infatti, portò una ventata di novità nella cultura e nella società ucraina, sotto l’influenza dei moderni linguaggi sviluppati in Occidente dalla poetica del simbolismo in letteratura e dell’impressionismo nell’arte e nella musica. Uno dei protagonisti di questo risveglio culturale fu il compositore Théodore Akimenko, nato nel 1876 nei dintorni di Kharkiv e scomparso a Parigi nel 1945. Fratello maggiore del compositore Yakov Stepovoy, figura di spicco della vita musicale ucraina dopo la Rivoluzione d’Ottobre, Akimenko fu allievo al Conservatorio di San Pietroburgo di Rimskij-Korsakov, e il suo nome è passato alla storia soprattutto per essere stato il primo insegnante di armonia e composizione dell’adolescente Stravinskij. Tra il 1903 e il 1906 visse a Parigi e Nizza, per emigrare in Francia nel 1923 svolgendo soprattutto un’importante attività didattica.
La sua musica fu influenzata profondamente dal linguaggio armonico di Debussy e dalle atmosfere misteriose e rarefatte del simbolismo del Faune e di Pelléas et Melisande, così come dal pianoforte di Skrjabin, con il quale ebbe rapporti amichevoli e di stima
Il suo archivio musicale fu donato dopo la morte alla Bibliothèque Nationale di Parigi, dove Kirill Karabits ha trovato e revisionato la pagina orchestrale La nymphe larmoyante del 1916. Anche in questo breve lavoro si possono riconoscere alcuni tratti tipici del linguaggio musicale del primo Debussy, come i contorni sfumati tra linea melodica e la tinta armonica, fusi in un unico elemento tematico. Un’altra caratteristica dello stile impressionista è l’attenzione per gli effetti spaziali dell’orchestra, con gli ampi salti melodici e il senso di apertura verso l’infinito creato da intervalli di quinta e da relazioni armoniche non tonali.      

 
Aram Il'ič Chačaturjan
Concerto per violino e orchestra in re minore

In Occidente circolano idee non proprio lusinghiere su Aram Chačaturjan. L’opinione prevalente tra i critici, compresi i più informati sul mondo russo come Richard Taruskin e Marina Frolova-Walker, è che Chačaturjan sia stato un artista mediocre, un campione del Kitsch sovietico e dell’orientalismo da operetta, un fedele lacchè del regime comunista. Su questo giudizio negativo ha probabilmente influito il fatto che all’indomani della sua scomparsa, l’1 maggio 1978, il “coccodrillo” della Pravda sia stato firmato niente meno che dal Segretario generale del Partito Comunista Leonid Brezhnev, e che ai funerali la sua bara fosse portata a spalla, tra gli altri, dal Primo ministro Andreij Gromyko. Chačaturjan, infatti, fu un convinto sostenitore dello Stato sovietico, e un attivo protagonista delle sue principali istituzioni musicali. Non che questo abbia risparmiato a Chačaturjan momenti critici e severe censure, con il consueto corollario di angherie e umiliazioni.

Anche Chačaturjan, infatti, fu tra i musicisti sovietici di alto rango, come Prokof’ev, Šostakovič, Mjaskovskij, colpiti dalla scure ideologica di Zhdanov del 1948 con l’accusa di ‘formalismo’. Tuttavia, Chačaturjan ha condiviso e appoggiato in maniera convinta il progetto staliniano di creare una musica nazionale transcaucasica, con la creazione di una fitta rete di teatri, conservatori, istituzioni musicali nelle Repubbliche sovietiche a sud del Volga, dalle quali egli stesso proveniva. Chačaturjan, infatti, era nato nel 1903 a Tbilisi, in Georgia, da genitori di origine armena. La sua formazione, però, avvenne a Mosca, dove si era trasferito da ragazzo per studiare prima alla scuola Gnessin e poi al Conservatorio, allievo dell’amatissimo e rispettato Nicolaj Mjaskovskij. Il frutto di questo insieme di esperienze è una musica in cui si possono distinguere fondamentalmente tre ceppi di influenza: le radici musicali georgiane e armene, il linguaggio della musica occidentale e un atteggiamento kuckista, ovvero il soprannome del cosiddetto Gruppo dei Cinque, conosciuto in Russia come mogucaja kucka, il potente mucchietto, per la musica popolare. In altre parole, Chačaturjan rimase fedele per tutta la vita a un’estetica musicale che si era formata in maniera indipendente prima del realismo socialista imposto da Stalin nel 1934. È importante sottolineare questo aspetto, perché altrimenti la figura di Chačaturjan rimane intrappolata nello stereotipo dell’artista di regime, obbediente e conformista, pronto a piegarsi alle direttive del Partito, cosa non del tutto vera, e comunque da inquadrare nel complesso rapporto tra arte e politica nel Novecento.

Non va dimenticato, infatti, che Chačaturjan non è solo l’autore del balletto eroico e folkloristico Gayaneh (1942), dal quale proviene la famosa Danza delle spade, ma anche della torbida e aspra Terza Sinfonia (1948), che gli procurò l’accusa di formalismo da parte di Zdanov. Del resto, lui stesso aveva qualcosa da dire riguardo alle interferenze della politica negli affari artistici. In un articolo pubblicato sulla rivista Sovetskaya muzika nel novembre 1953, poco dopo la morte di Stalin, Chačaturjan tuonava:
Sono stati prodotti lavori cosiddetti ‘monumentali’ per cori e grandi orchestre, e con dentro niente! Ma uno li deve sopportare solo perché hanno un titolo tipo ‘Amore per la patria sovietica’ oppure ‘Lotta per la pace’ oppure ‘Fratellanza tra le nazioni’. Ma alla fine il tempo ha stimato il loro valore: esso sono stati dimenticati nel giro di una sera. [...] nessuna buona arte è prodotta da persone costantemente timorose di ‘dire la cosa sbagliata’  
Un esempio particolarmente efficace del nazionalismo caucasico unito alla mentalità modernista di Chačaturjan è il suo Concerto per violino, scritto e dedicato a David Oistrach nel 1940. Il grande violinista ricorda così l’impressione provata ascoltando il compositore suonare al pianoforte il Concerto fresco d’inchiostro:
I ritmi frenetici, caratteristici del folklore nazionale, e i temi ampiamente melodici mi catturarono all’istante – racconta Oistrach – [Chačaturjan] suonava con enorme entusiasmo. Si poteva ancora sentire nell’esecuzione quel fuoco artistico con il quale aveva creato la musica. Sincera e originale, colma di bellezza melodica e di colori popolari, la musica sembrava scintillare. Tutti questi aspetti, che sono ancora amati dal pubblico in questo Concerto, fecero all’epoca un’indimenticabile impressione
Il lavoro, che fa parte di un trittico di concerti scritti nella prima fase della sua produzione (il Concerto per pianoforte è del 1936, quello per violoncello del 1946), rappresenta molto bene le caratteristiche generali dello stile di Chačaturjan. Il primo movimento, Allegro con fermezza, è una forma sonata molto tradizionale, ma sciacquata nel ritmo e nell’armonia del primo Novecento. Il tema principale ha il taglio di una danza tribale, e si sviluppa in maniera irregolare. Il piede metrico oscilla tra 3/4 e 4/4, e il fraseggio si allunga in maniera irregolare, così come la tonalità di re minore è tratta in maniera molto libera. Il secondo tema, invece, introdotto da una folata degli archi, anche in questo caso con accenti irregolari, si distende in una melodia dolce e cantabile in la maggiore.
L’altro elemento tipico della musica di Chačaturjan, ereditato dalla tradizione ottocentesca, è l’orientalismo russo già vivo nella musica dei kuckisti, in particolare Borodin, Rimskij-Korsakov e Balakirev
Qui è particolarmente evidente nell’abbondante numero di appoggiature, gruppetti e figure ornamentali sparse nella parte del violino e in orchestra. Come nel Concerto di Cajkovskij, lo sviluppo è collegato alla ripresa da una grande cadenza del violino, aggiungendo un altro tassello al mosaico di influenze della musica di Chačaturjan. Le stesse caratteristiche si ritrovano, in maniera più sentita e profonda, nel melanconico Andante sostenuto, configurato in una tonalità di la minore trattata in maniera modale, di sapore arcaico e lontano. La parte centrale, più drammatica ed espressiva, si tinge di un cromatismo più appassionato, che corrisponde a un tempo più mosso e accelerato. L’Allegro vivace finale riprende l’idea principale del primo movimento, voltandola in re maggiore e soprattutto trasformandola in una danza sfrenata e pittoresca. Il violino volteggia come un acrobata sul groviglio di sincopi che si snoda lungo la forma di rondo. Lo scrigno occidentale racchiude un genio orientale del violino, ogni colpo d’arco è una gemma scintillante, ogni frase cantabile una carezza vellutata e un profumo d’incenso.
 
Antonín Dvořák
Sinfonia n. 7 in re minore, op. 70 (B 141)

La figura di Anton Dvořák gode ancora oggi di una reputazione controversa. La forbice tra il giudizio della critica e il successo precoce e internazionale della sua musica rappresenta forse uno dei primi sintomi del terremoto culturale che avrebbe segnato la storia del Novecento. I gradini della sua ascesa sociale e artistica, infatti, raccontano una storia non solo eccezionale, ma anche nuova rispetto ad altri maestri del suo tempo. La musica di Dvořák comincia a circolare a Praga negli anni Settanta, si afferma nel mondo anglosassone e poi in quello di lingua tedesca nel decennio successivo, conquista in maniera clamorosa gli Stati Uniti negli anni Novanta e finisce per espandersi a livello internazionale sul mercato editoriale a cavallo del nuovo secolo. L’incredibile slancio di questa progressione non dipendeva soltanto dalla bellezza e dalla varietà della sua produzione, che toccava in pratica ogni genere musicale, dall’opera alla musica da camera, ma rispecchiava anche la nascita nei principali Paesi occidentali di una nuova classe media urbana in cerca di un riconoscimento sociale.

Dvořák è stato forse il primo musicista a sentire l’esigenza di colmare il solco sempre più profondo, scavato dalle moderne strutture sociali della vita urbana, tra le aspirazioni degli artisti e l’effettiva capacità di comprensione del pubblico. La sua stessa biografia, in fondo, incarna una storia di riscatto sociale, nella quale centinaia di migliaia di impiegati, insegnanti, capireparto di fabbrica, lettori di quotidiani, in altre parole la nascente classe media, potevano riconoscersi. I pregiudizi sulla sua musica scaturiscono in gran parte da qui, dall’opposizione al gusto e alle tendenze della cultura di massa in via di formazione. I critici e i musicisti della generazione successiva, infatti, videro in Dvořák un artista ambiguo, di scarsa personalità, incline a un deprecabile abuso di sentimentalismo. Gli attacchi provenivano sia da parte dei commentatori legati ai movimenti modernisti che da quelli di orientamento conservatore. La facile vena melodica e un certo carattere naif, le uniche qualità che gli erano riconosciute da tutti, si ritorcevano contro il suo stile, accusato di essere superficiale e condiscendente. In pratica, i difetti di Dvořák sono gli stessi che successivamente furono imputati a musicisti come George Gershwin e Kurt Weill.

Il malcelato disprezzo per la musica di Dvořák risale già agli inizi della sua diffusione in Europa, e si manifestò in maniera esplicita proprio nella capitale musicale più conservatrice, Vienna, che pure era stata il primo trampolino del suo successo. L’accoglienza riservata ai suoi lavori sinfonici, infatti, non fu mai del tutto favorevole a Vienna, a differenza di Londra o Berlino. Vienna era la città in cui lo sconosciuto musicista di provincia aveva trovato l’insperato sostegno di uno dei principali compositori del tempo, Johannes Brahms, e dell’indiscusso principe della critica musicale, Eduard Hanslick. I rapporti di Dvořák con Vienna e con Brahms, in realtà, furono più sottili e complessi di quanto raccontino di solito i manuali di storia della musica. La stima e la simpatia reciproca fu senza dubbio sincera e senza ombre, fino a diventare nel corso degli anni una vera e propria amicizia. Tuttavia, sotto la superficie, non sono mancate le tensioni e i silenzi tra due personalità ben consapevoli delle reciproche differenze e in una certa misura anche in competizione tra loro. Il tono stesso delle lettere e dei documenti rimasti testimonia lo sviluppo di un rapporto cominciato con una certa condiscendenza da parte di Brahms verso il collega più giovane.
La mentalità del mondo musicale viennese si coglie meglio, forse, nella prima lettera di Hanslick indirizzata a Dvořák, il 30 novembre 1877. Dopo averlo informato dell’assegnazione di una borsa di studio governativa, il critico consigliava al musicista di scrivere a Brahms:
Dopotutto, sarebbe augurabile che i vostri lavori venissero conosciuti aldilà dei confini piuttosto ristretti della vostra patria ceca, che in ogni caso non fa niente per voi
Le parole di Hanslick, un ebreo praghese di lingua tedesca, dovevano suonare sgradevoli e paternaliste alle orecchie di un giovane nazionalista come Dvořák. La lettera rivela, per contrasto, le tensioni politiche serpeggianti tra centro e periferia, i conflitti sotterranei tra le diverse nazionalità dell’Impero austro-ungarico, la crescente insofferenza della popolazione non di lingua tedesca. L’influsso di Brahms fu senza dubbio profondo, ma non fino al punto d’intaccare l’autonomia del percorso artistico di Dvořák. D’altra parte, la simpatia di Brahms non era ispirata solo dal desiderio di aiutare un collega meno fortunato, ma anche da un interesse sincero per lo sviluppo del suo lavoro. La biblioteca di Brahms, infatti, conteneva più partiture di Dvořák che di qualunque altro musicista contemporaneo. La curiosità di studiare i nuovi lavori dell’amico indusse Brahms ad accettare persino di correggere le bozze delle sue partiture per l’editore Simrock, quando Dvořák si trovava a New York nei primi anni Novanta.

Il periodo di maggior tensione tra i due artisti inizia alla metà degli anni Ottanta, in corrispondenza con la stesura della Terza Sinfonia di Brahms (1883) e della Settima di Dvořák (1885). I due lavori rivelano una reciproca influenza, ma allo stesso tempo anche il desiderio di esprimere in maniera indipendente il proprio mondo interiore. Tra il gennaio del 1884 e il dicembre 1887 i loro incontri s’interrompono, per riprendere in seguito in maniera sporadica fino alla scomparsa di Brahms. In parte ciò dipendeva dai viaggi di Dvořák, che a partire dal 1884 si recò in Inghilterra a più riprese per lavoro. A Londra le sue Sinfonie, i lavori di musica sacra e i pezzi “esotici” di sapore slavo riscuotevano da tempo un successo strepitoso, riempiendo di pubblico il grande catino della Royal Albert Hall e di quattrini le tasche del suo editore inglese Henry Littleton.

Il nome di Dvořák fu consacrato nel giugno del 1884, in occasione della sua prima visita a Londra, dalla nomina a socio onorario della Società Filarmonica (Philharmonic Society), che allo stesso tempo conferì al nuovo membro l’incarico di scrivere una Sinfonia. Era un compito di grande impegno, non solo perché Dvořák doveva onorare una tradizione eccezionale (Beethoven aveva scritto la Nona Sinfonia per la Società Filarmonica, tra gli altri), ma anche perché sentiva la necessità di reagire alla profonda impressione ricevuta dalla Terza Sinfonia in fa maggiore di Brahms, il lavoro che più l’aveva colpito negli ultimi anni. Dopo aver ascoltato il primo e l’ultimo movimento della nuova Sinfonia suonati al pianoforte dall’autore, Dvořák scrisse all’editore Simrock il 10 ottobre 1883:
Vi dico senza esagerazioni che questo lavoro sorpassa le prime due Sinfonie, non forse in grandezza e potenza di concezione ma di sicuro in – bellezza!
Brahms si era avvicinato in quel lavoro alle atmosfere dell’amico e collega, specie alle languide melodie e profumate armonie della Sesta Sinfonia in re maggiore (1880). A sua volta, forse, Dvořák desiderava dimostrare nella nuova Sinfonia di non essere solo uno splendido inventore di melodie, ma un compositore dotato di un preciso senso della forma e in grado di sviluppare le idee musicali nel solco della grande tradizione sinfonica. Lavorò senza soste per raggiungere il suo scopo, come testimonia una lettera inviata alla fine di dicembre all’amico Antonin Rus, magistrato della città di Pisek:
Ora sono occupato con una nuova Sinfonia (per Londra) e in ogni momento non ho in testa altro che il mio lavoro, ma dev’essere così, visto che attira l’attenzione di tutto il mondo
Il successo del nuovo lavoro fu assicurato anche dal sostegno dei grandi direttori d’orchestra dell’epoca. Hans Richter diresse la Settima Sinfonia con i Wiener Philharmoniker nel gennaio 1887, senza ottenere però il successo desiderato. Hans von Bülow, invece, portò il lavoro al trionfo in due memorabili concerti a Berlino, il 27 e 28 ottobre 1889. Arthur Nikisch, astro nascente tra gli interpreti della nuova generazione, incluse la Settima nel programma della tournée negli Stati Uniti, dove fu eseguita per la prima volta nel 1891 a Boston.

La Settima Sinfonia in re minore non rinnega il proposito di dare voce e dignità artistica alla musica nazionale, che rimaneva l’orizzonte ideale della produzione di Dvořák. «Dio, amore, patria!» sono i principi che lo guidavano nel lavoro, come dichiarava in una lettera di quel periodo all’amico Alois Göbel. Tuttavia, Dvořák diluisce le inflessioni folkloristiche in una scrittura più elaborata e vicina alle forme classiche, conferendo al suono orchestrale della Sinfonia un colore che forse nessuno aveva trovato dopo Beethoven e Schubert. Il carattere drammatico e tempestoso del lavoro, evidente in particolare nei movimenti estremi, deriva in misura consistente anche dal suo contesto spirituale. La Sinfonia in re minore infatti chiude un periodo di conflitti interiori per Dvořák, diviso tra i sentimenti patriottici e l’aspirazione personale a traguardi artistici internazionali. Queste contraddizioni si manifestavano in primo luogo nella produzione teatrale, costringendolo per esempio a prendere in considerazione la necessità di scrivere un’opera in tedesco, la lingua dell’oppressore, se desiderava essere conosciuto al di fuori dei confini nazionali.

La musica strumentale offriva una via d’uscita al conflitto estetico che lo paralizzava. La nuova Sinfonia in re minore rappresenta il contrappeso psicologico della precedente (non a caso, forse, nella tonalità di re maggiore), dove il paesaggio della campagna slava diventava una sorta di rifugio ideale e una fonte di nostalgia.
Qui invece, in particolare nel primo movimento, Allegro maestoso, Dvořák mostra un carattere ascetico, una sobrietà melodica insolita e un colorito sonoro massiccio, grazie all’uso di trombe e corni nell’impasto dell’armonia
Il movimento successivo, Poco Adagio, è forse quello più vicino allo spirito romantico, grazie soprattutto alla voce del corno e al magico suono della natura che scaturisce da ogni nota della scrittura di Dvořák. In maniera analoga a quel che succede in Bruckner, nelle Sinfonie di Dvořák lo Scherzo è concepito in genere nella forma più originale. La prima impressione è di assistere a una fluttuante danza di fate, sospinte dall’irresistibile ritmo di valzer del tema. Il suono argentino dell’inizio, invece, diventa sempre più melanconico, con momenti anche drammatici, in contrasto con la serenità sorridente della sezione principale. Il Finale, Allegro, esprime l’asprezza della lotta interiore combattuta dall’autore e il dolore di staccarsi da un mondo vissuto con amore e riconoscenza. Il linguaggio diventa conciso e teatrale, con degli slanci di eroismo insoliti per Dvořák, mentre la forma del movimento si sviluppa sfruttando in maniera magistrale i processi compositivi del mondo classico, compreso l’uso dell’imitazione e del contrappunto. Nessuna delle sue Sinfonie si era mai avvicinata così tanto ai modelli della musica tedesca, mantenendo tuttavia i piedi ben piantati nella musica della sua terra.

Brahms ammirava Dvořák come musicista, ma non amava altri aspetti della sua personalità, come la fervente fede cattolica, lo spirito nazionalista e il laborioso desiderio di avere successo. La Sinfonia in re minore si colloca al centro delle sottili contraddizioni della loro relazione, che si nutriva forse delle reciproche idiosincrasie. Brahms non si lasciò scappare mai un commento su questo lavoro, ma è facile immaginare che non vedesse di buon occhio il tentativo di trasformare le forme classiche in un veicolo di propaganda di valori musicali nazionali.  

Oreste Bossini

Concerto del 12 e 13 dicembre Auditorium Rai "Arturo Toscanini" di Torino - biglietti da 9 a 30 euro anche online