Le note di sala del concerto n. 11 della stagione 2024/2025 dell'Orchestra Rai
Dmitrij Šostakovič
Dmitrij Šostakovič
Sinfonia n. 7 in do maggiore, op. 60
Leningrado
Sinfonia n. 7 in do maggiore, op. 60
Leningrado
Un’ora fa ho terminato due movimenti di una grande composizione sinfonica. Se sarò in grado di portare a compimento la partitura, se cioè riuscirò a finire il terzo e il quarto movimento, potrò chiamare il lavoro la Settima Sinfonia. Perché vi dico questo? Ve lo sto dicendo per dimostrare che la vita nella nostra città è normale. Siamo tutti ai nostri posti di combattimento. Musicisti sovietici, miei innumerevoli compagni in armi, amici miei! Ricordate, la nostra arte è in pericolo. Difendiamo la nostra musica, lavoriamo onestamente e generosamente!
Così parlava Šostakovič, alla Radio di Leningrado, il 16 settembre 1941. Il 22 giugno Hitler aveva ordinato d’invadere l’Unione sovietica con un attacco a sorpresa, stracciando il trattato di non aggressione stipulato nel 1939 e cogliendo l’Armata rossa impreparata. In pochi giorni i carri armati tedeschi erano alle porte di Leningrado, stringendo l’antica capitale in una morsa d’acciaio. La popolazione reagì con grande forza d’animo alla minaccia mortale. Šostakovič stesso fu tra i primi a chiedere di arruolarsi come volontario, ma la sua domanda fu respinta per ben tre volte. Fu assegnato, invece, a incarichi di difesa civile, inclusa la sorveglianza del tetto del Conservatorio, come testimonia la famosa fotografia di Sostakovic in divisa da pompiere pubblicata nel 1942 dalla rivista americana «Times». Ben più efficace, come strumento di propaganda, si rivelò la sua musica. La Settima Sinfonia, «dedicata alla città di Leningrado», fu composta di getto - «con un unico tratto di penna» - nel caos dei primi mesi di assedio. Il compositore e critico musicale Nikolas Slonimskij, nato a San Pietroburgo come Šostakovič ma emigrato negli Stati Uniti, la definì una Blitzsymphonie, in contrapposizione al Blitzkrieg, alla guerra lampo dei nazisti. I primi tre movimenti furono scritti a Leningrado, l’ultimo a Kujbyšev, una cittadina degli Urali dove il governo aveva fatto sfollare i principali artisti dell’Unione Sovietica. Qui la Settima Sinfonia, terminata in dicembre, ebbe la prima esecuzione il 5 marzo 1942, con i musicisti del Teatro Bol’šoj diretti da Samuil Abramovič Samosud.
La storia di questo lavoro è un capitolo a sé, nell’affresco terribile della guerra. La Settima incarnò immediatamente lo spirito di resistenza del popolo russo, divulgando allo stesso tempo nel mondo il nome dell’autore. Il 9 agosto 1942 la Settima risuonò anche nella Leningrado assediata, mentre la città versava in condizioni terribili. La gente moriva di fame nelle case o addirittura per la strada, gli abitanti non erano nemmeno più in grado di seppellire i corpi dei morti. Erano stati richiamati dal fronte i musicisti dell’Orchestra della Radio, riorganizzata con spirito militare dal direttore Karl Eliasberg, per rinfrancare il morale dei soldati. Per l’occasione, alla periferia della città furono sistemati degli altoparlanti (le famose casse “svetlana”) rivolti verso i soldati tedeschi, per far sentire agli assedianti che la vita di Leningrado continuava a pulsare
Un mese prima, il 19 luglio, la Settima era stata eseguita a New York da Arturo Toscanini con l’Orchestra della NBC, dopo che il microfilm della partitura era riuscito a raggiungere gli Stati Uniti con un viaggio rocambolesco attraverso la Persia e l’Egitto.
Motivi politici e ragioni artistiche s’intrecciavano in questa Sinfonia, al di là forse della volontà dell’autore. In origine i quattro movimenti portavano anche un titolo, che Šostakovič decise in seguito di eliminare: La guerra, Il ricordo, Gli spazi sconfinati della patria, La vittoria. Il concetto di musica a programma dev’essere interpretato con molta cautela. La struttura della Sinfonia è basata in primo luogo su processi di trasformazione e di variazione del materiale musicale, secondo una logica che ubbidisce soltanto all’articolazione della forma. Le immagini conferiscono un valore su un piano poetico, come programma politico per così dire, ma non rappresentano una guida per seguire una musica descrittiva. Šostakovič nelle sue sinfonie parla soprattutto di sé e del suo modo di vedere il mondo, anche se nel caso della Settima non era possibile prescindere dalla retorica politica implicita in un’epoca di guerra, e di guerra per la sopravvivenza qual era quella vissuta dal popolo russo.
Il primo movimento (Allegretto), per esempio, si presta facilmente a una serie di incomprensioni e d’interpretazioni fuorvianti, se si inquadra la musica soltanto nella prospettiva del titolo originario, La guerra. L’episodio più rilevante del movimento consiste in una serie di dodici variazioni su un tema che ha una spiccata rassomiglianza con l’«Andiam da Chez Maxim» della Vedova allegra. Il modo di trattare le variazioni è analogo a quello usato da Ravel nel Bolero, ossia un processo di accumulazione timbrica su un elemento ripetitivo. Lo stesso Šostakovič ha sottolineato più volte di non aver voluto raffigurare in questo episodio l’implacabile marcia delle truppe naziste, come spesso è stato detto. Il vero protagonista del movimento sarebbe invece il popolo e il suo dolore di fronte alle devastazioni della guerra. Secondo i ricordi dell’autore raccolti da Solomon Volkov, lo spunto del brano era stato fornito niente meno che dalla lettura dei Salmi di Davide, in particolare dal Lamento sulla desolazione di Gerusalemme. L’impressione è che questo episodio, per quanto assolutamente efficace dal punto di vista spettacolare, sia uno studio sui processi di accumulo che si rintracciano un po’ ovunque nella musica di Šostakovič. L’idea di Ravel, apertamente resa riconoscibile nella Settima, è ripresa ed elaborata in forma nuova, in modo da formare una sorta di sezione di sviluppo all’interno di una struttura sonatistica.
Vari elementi stilistici delle sinfonie precedenti si ripresentano nella Settima, primo tra tutti la tendenza a esasperare fino all’estremo limite ogni gesto espressivo. Dopo la tellurica esperienza della Quarta Sinfonia, ritirata saggiamente prima dell’esecuzione per non incorrere in nuove critiche da parte del regime, Šostakovič aveva provveduto a mettere dei limiti al suo traboccante mondo emotivo, nonostante l’istinto per le pulsioni drammatiche messo in luce nelle opere. L’unità di tempo, per esempio, è fondamentalmente rispettata, malgrado alcuni strappi nella sezione centrale. Allo stesso tempo, la materia musicale si frantuma a tratti in schegge sonore, lasciando emergere dalla massa dell’orchestra i singoli strumenti. Il movimento si chiude su una reminiscenza del tema delle variazioni, anticipando così in modo lirico un altro caratteristico processo compositivo, ossia il passaggio di elementi tematici da un movimento all’altro.
I due movimenti centrali, il Moderato (poco allegretto) e il successivo Adagio, riportano la Sinfonia nell’orbita di quel mondo mahleriano che Šostakovič non aveva mai cessato di amare. Entrambi i movimenti possiedono le caratteristiche del rondo. Il primo disegna una forma ad arco, con la sezione centrale in contrasto con gli episodi laterali. La struttura dell’Adagio, invece, è meno ortodossa per quanto riguarda la forma, ma si fonda sullo stesso principio, ossia la contrapposizione di caratteri contrastanti. Šostakovič era ispirato dal teatro di Shakespeare. Ammirava in particolare la scena dei becchini nell’Amleto, per lo stridente contrasto tra il grottesco umorismo di questo episodio e il tragico epilogo del dramma.
Il finale è uno dei punti più controversi. In un lavoro tragico qual è la Settima, il rischio di un finale enfatico e retorico era un pericolo molto concreto. D’altro canto non era immaginabile, né forse auspicato dallo stesso autore, che la Sinfonia si concludesse senza un’atmosfera positiva, al termine di una drammatica lotta contro lo spirito negativo. Šostakovič risolve la questione con un virtuosismo tecnico, incrementando cioè i processi d’integrazione reciproca tra le parti, per rendere la forma complessiva più organica e unitaria. Per la prima volta in un suo lavoro il compositore lega assieme l’intera struttura del movimento attraverso un tema, impiegato come una sorta di motto caratteristico. Grazie alle molteplici variazioni armoniche e ritmiche, il tema-motto esposto all’inizio da violoncelli e contrabbassi conduce la Settima verso la solenne riesposizione del tema del primo movimento, chiudendo così in un cerchio espressivo l’intero percorso dell’opera. Il finale diventa il culmine dei processi avviati all’inizio del lavoro, mantenendo quindi il carattere positivo richiesto dalle circostanze. Šostakovič troverà soluzioni più soddisfacenti nelle successive sinfonie, meno famose di questa ma forse più riuscite sul piano artistico. Il problema del finale è tuttavia emblematico di come l’autore abbia rappresentato il caso forse più controverso della musica del Novecento.
L’orizzonte spirituale di Šostakovič non contemplava la dimensione religiosa, in alcuna forma. Era un uomo cresciuto nella convinzione che la realtà terrena fosse la sola prospettiva dell’uomo.
Motivi politici e ragioni artistiche s’intrecciavano in questa Sinfonia, al di là forse della volontà dell’autore. In origine i quattro movimenti portavano anche un titolo, che Šostakovič decise in seguito di eliminare: La guerra, Il ricordo, Gli spazi sconfinati della patria, La vittoria. Il concetto di musica a programma dev’essere interpretato con molta cautela. La struttura della Sinfonia è basata in primo luogo su processi di trasformazione e di variazione del materiale musicale, secondo una logica che ubbidisce soltanto all’articolazione della forma. Le immagini conferiscono un valore su un piano poetico, come programma politico per così dire, ma non rappresentano una guida per seguire una musica descrittiva. Šostakovič nelle sue sinfonie parla soprattutto di sé e del suo modo di vedere il mondo, anche se nel caso della Settima non era possibile prescindere dalla retorica politica implicita in un’epoca di guerra, e di guerra per la sopravvivenza qual era quella vissuta dal popolo russo.
Il primo movimento (Allegretto), per esempio, si presta facilmente a una serie di incomprensioni e d’interpretazioni fuorvianti, se si inquadra la musica soltanto nella prospettiva del titolo originario, La guerra. L’episodio più rilevante del movimento consiste in una serie di dodici variazioni su un tema che ha una spiccata rassomiglianza con l’«Andiam da Chez Maxim» della Vedova allegra. Il modo di trattare le variazioni è analogo a quello usato da Ravel nel Bolero, ossia un processo di accumulazione timbrica su un elemento ripetitivo. Lo stesso Šostakovič ha sottolineato più volte di non aver voluto raffigurare in questo episodio l’implacabile marcia delle truppe naziste, come spesso è stato detto. Il vero protagonista del movimento sarebbe invece il popolo e il suo dolore di fronte alle devastazioni della guerra. Secondo i ricordi dell’autore raccolti da Solomon Volkov, lo spunto del brano era stato fornito niente meno che dalla lettura dei Salmi di Davide, in particolare dal Lamento sulla desolazione di Gerusalemme. L’impressione è che questo episodio, per quanto assolutamente efficace dal punto di vista spettacolare, sia uno studio sui processi di accumulo che si rintracciano un po’ ovunque nella musica di Šostakovič. L’idea di Ravel, apertamente resa riconoscibile nella Settima, è ripresa ed elaborata in forma nuova, in modo da formare una sorta di sezione di sviluppo all’interno di una struttura sonatistica.
Vari elementi stilistici delle sinfonie precedenti si ripresentano nella Settima, primo tra tutti la tendenza a esasperare fino all’estremo limite ogni gesto espressivo. Dopo la tellurica esperienza della Quarta Sinfonia, ritirata saggiamente prima dell’esecuzione per non incorrere in nuove critiche da parte del regime, Šostakovič aveva provveduto a mettere dei limiti al suo traboccante mondo emotivo, nonostante l’istinto per le pulsioni drammatiche messo in luce nelle opere. L’unità di tempo, per esempio, è fondamentalmente rispettata, malgrado alcuni strappi nella sezione centrale. Allo stesso tempo, la materia musicale si frantuma a tratti in schegge sonore, lasciando emergere dalla massa dell’orchestra i singoli strumenti. Il movimento si chiude su una reminiscenza del tema delle variazioni, anticipando così in modo lirico un altro caratteristico processo compositivo, ossia il passaggio di elementi tematici da un movimento all’altro.
I due movimenti centrali, il Moderato (poco allegretto) e il successivo Adagio, riportano la Sinfonia nell’orbita di quel mondo mahleriano che Šostakovič non aveva mai cessato di amare. Entrambi i movimenti possiedono le caratteristiche del rondo. Il primo disegna una forma ad arco, con la sezione centrale in contrasto con gli episodi laterali. La struttura dell’Adagio, invece, è meno ortodossa per quanto riguarda la forma, ma si fonda sullo stesso principio, ossia la contrapposizione di caratteri contrastanti. Šostakovič era ispirato dal teatro di Shakespeare. Ammirava in particolare la scena dei becchini nell’Amleto, per lo stridente contrasto tra il grottesco umorismo di questo episodio e il tragico epilogo del dramma.
Il finale è uno dei punti più controversi. In un lavoro tragico qual è la Settima, il rischio di un finale enfatico e retorico era un pericolo molto concreto. D’altro canto non era immaginabile, né forse auspicato dallo stesso autore, che la Sinfonia si concludesse senza un’atmosfera positiva, al termine di una drammatica lotta contro lo spirito negativo. Šostakovič risolve la questione con un virtuosismo tecnico, incrementando cioè i processi d’integrazione reciproca tra le parti, per rendere la forma complessiva più organica e unitaria. Per la prima volta in un suo lavoro il compositore lega assieme l’intera struttura del movimento attraverso un tema, impiegato come una sorta di motto caratteristico. Grazie alle molteplici variazioni armoniche e ritmiche, il tema-motto esposto all’inizio da violoncelli e contrabbassi conduce la Settima verso la solenne riesposizione del tema del primo movimento, chiudendo così in un cerchio espressivo l’intero percorso dell’opera. Il finale diventa il culmine dei processi avviati all’inizio del lavoro, mantenendo quindi il carattere positivo richiesto dalle circostanze. Šostakovič troverà soluzioni più soddisfacenti nelle successive sinfonie, meno famose di questa ma forse più riuscite sul piano artistico. Il problema del finale è tuttavia emblematico di come l’autore abbia rappresentato il caso forse più controverso della musica del Novecento.
L’orizzonte spirituale di Šostakovič non contemplava la dimensione religiosa, in alcuna forma. Era un uomo cresciuto nella convinzione che la realtà terrena fosse la sola prospettiva dell’uomo.
La sua musica pone sempre al centro della riflessione, in modo più o meno esplicito, la grande incognita della morte, sospesa come un immenso punto interrogativo sul destino dell’uomo
Nelle Sinfonie di Šostakovič è impensabile che il finale risolva le contraddizioni in un senso autenticamente positivo, eppure il contesto politico della sua epoca pretendeva una visione ottimistica della vita sovietica. In questa contraddizione Šostakovič seppe alimentare la sua opera con le risorse migliori del suo ingegno e del suo spirito. Per questo il suo linguaggio ha sviluppato un duplice registro espressivo, uno ufficiale e l’altro segreto.
Oreste Bossini
Oreste Bossini