Le note di sala del concerto che inaugura Rai Nuova Musica

Le note di sala del concerto che inaugura Rai Nuova Musica

Stagione 2024/2025 - 6 marzo 2025, 20.30

Le note di sala del concerto che inaugura Rai Nuova Musica
Francesco Antonioni
Gli occhi che si fermano per orchestra

Giya Kancheli
T.S.D. per violoncello e orchestra

Peter Eötvös
Reading Malevich, per orchestra
Dialog mit Mozart (Da capo for orchestra)

La musica di Francesco Antonioni è figlia della grande crisi maturata nella cultura occidentale verso la fine del secolo scorso, con il tramonto degli ideali modernisti che avevano animato la prima parte del Novecento. Costretta a fare i conti con le dimensioni ormai planetarie dell’economia e dei mercati, incalzata dalla prepotente invadenza della televisione e dei linguaggi della cultura di massa, travolta dal flusso inarrestabile di informazioni delle reti telematiche, l’utopia di una futura liberazione dal bisogno e di un’inarrestabile corsa del progresso si stemperava in una lettura disincantata della storia, non più consacrata alla realizzazione di grandi progetti iscritti nel proprio destino.

L’architettura prima, poi via via tutte le altre arti hanno cominciato a smaltire la sbornia avanguardistica del mondo uscito dalla guerra, dominato dalla tecnica e dal boom economico. La condizione postmoderna ha significato abbandonare la ricerca del nuovo come valore in sé, e ogni residua distinzione tra linguaggi accademici e popolari, tra forme codificate e fluide, privilegiando un’estetica capace di mescolare elementi diversi, di confrontarsi in maniera ironica con la storia, di interpretare in modo spregiudicato gli stili più eterogenei. Il mondo postmoderno, tuttavia, non è un monolite, e si potrebbe dire, parafrasando Anna Karenina, che ogni artista postmoderno è postmoderno a modo suo.

Antonioni, cresciuto con un senso della storia e un rapporto con la tradizione molto marcato, rifugge dal citazionismo e ancor più dal relativismo culturale che hanno connotato tanta parte dell’estetica postmoderna.
Nella sua musica è prevalente da un lato un atteggiamento di riflessione sulla storia e sulle forme espressive del passato, e dall’altro uno spiccato interesse per la pluralità dei processi compositivi, che spesso si traduce in una propensione a includere nel proprio linguaggio musicale elementi e stimoli provenienti da altre discipline
Nel caso di Gli occhi che si fermano, un lavoro per orchestra scritto nel 2009 per il Teatro Lirico di Cagliari e ripreso da Antonio Pappano con l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nel 2014, Antonioni prende spunto da un problema di percezione visiva (avvicinare gradualmente la prospettiva di un’immagine fino a renderla sgranata, per poi tornare a una visione complessiva) per riflettere sulle molteplici ambiguità che si possono annidare anche dietro un fenomeno acustico. In maniera analoga, anche l’orecchio può analizzare in forma parossistica e ossessiva un suono per poi avvertire il bisogno di percepire l’insieme dei fenomeni acustici per ricostruire il senso dell’ascolto. Naturalmente l’esperienza della vista e dell’udito sono regolate da leggi fisiche diverse, quindi l’analogia serve a innescare una riflessione che ha altri risvolti quando riguarda il fenomeno musicale.

In Gli occhi che si fermano, l’ambiguità della percezione si traduce nella sovrapposizione di suoni di contrastante durata e volume (suoni lunghi e tenuti contro suoni rapidi e ribattuti), in prospettive sonore che si intersecano a specchio, in un gioco di densità musicale che oscilla tra il silenzio e la saturazione armonica. Antonioni non cerca l’effetto sonoro inaudito (ammesso che si possa ancora immaginare l’inaudito, e non intenderlo soltanto come una novità effimera presto soppiantata da un nuovo effetto stravagante) tramite tecniche insolite di produzione del suono sugli strumenti o l’uso dell’elettronica, ma rimane nell’ambito della scrittura tradizionale, così come rispetta i confini del linguaggio armonico classico, benché concepito al di là della funzione tonale. Una nota, Re, è il perno di questo vorticoso gioco di specchi, sia nei momenti di maggiore concitazione ritmica che in quelli di apparente fissità armonica. Su tutto domina il gusto per la scrittura ben organizzata, per il piacere del virtuosismo strumentale, per il nitore e l’equilibrio sonoro che rendono Antonioni uno degli autori più apprezzati e ricercati dai musicisti di oggi. 

Giya Kancheli era un nome pressoché sconosciuto in Occidente prima del disfacimento dell’Unione Sovietica. Nato nel 1935 a Tbilisi, capitale della Georgia, Kancheli si è accostato alla musica senza una formazione classica o accademica, passando piuttosto da forme alternative come il jazz e la canzone. Frequentò il Conservatorio tra il 1959 e il 1963, dopo aver abbandonato gli studi di geologia. Erano gli anni della politica del disgelo di Kruscev, e i giovani come Kancheli ebbero la possibilità di conoscere, seppur con molti limiti, il mondo musicale moderno, comprese figure di autori come Charles Ives, il cui misticismo di origine trascendentalista ha lasciato un’impronta sul suo lavoro.

La carriera artistica di Kancheli si è sviluppata alla periferia dell’impero sovietico, partendo dal grande sinfonismo di Sostakovic ma legandosi ben presto ai compositori più innovativi della sua generazione come Alfred Schnittke, Arvo Pärt, Valentin Silvestrov, Sofija Gubajdulina, che hanno rappresentato una sorta di fronda nei confronti del regime sovietico, e allo stesso tempo un’alternativa al radicalismo linguistico della nuova musica europea.

Kancheli è rimasto nell’ombra fino alla dissoluzione del mondo sovietico, lavorando soprattutto per il cinema e per il teatro, ma componendo tra il 1967 e il 1986 un ciclo di sette Sinfonie di potente forza espressiva e allo stesso tempo di visionaria intensità lirica, un lungo viaggio nella memoria e nelle radici del proprio mondo che si è concluso nel 1989 con una “liturgia” per viola e orchestra intitolata Pianto dal vento in memoria dell’amico scrittore e musicologo Givi Ordzhonikidze

Con la caduta del Muro, Kancheli ha potuto viaggiare in Occidente, prima con una borsa di studio a Berlino e poi in Belgio, facendo conoscere così a livello internazionale la sua musica, diventata nel frattempo più intimista e introspettiva, avvolta in una nostalgia poetica spesso legata al ricordo della sua terra, dove alla fine ha deciso di tornare per chiudere il cerchio della sua esistenza, morendo nella sua Tiblisi nel 2019. Questa nuova semplicità del suo stile, che in sostanza significa una ricerca delle forme essenziali di espressione musicale, trova un esempio perfetto in uno dei suoi ultimi lavori, T.S.D. per violoncello e orchestra, scritto nel 2018 in occasione del decennale del festival moscovita «Vivacello», dove è stato eseguito per la prima volta da Boris Adrianov come solista e dall’Orchestra Sinfonica Novaya Rossiya diretta da Nicholoz Rachveli l’11 novembre dello stesso anno.

Il lavoro è dedicato a Mstislav Rostropovic, che è stato uno dei principali ambasciatori della nuova musica sovietica all’estero, e in particolare un mentore di Kancheli. Il titolo è l’acronimo di Tonica – Sottodominante – Dominante, ossia le triadi che formano la cadenza più comune nell’ambito dell’armonia tonale. Preceduto da questa sorta di manifesto di un’estetica della semplicità, il lavoro inizia come un brano di musica da camera, con il pianoforte e una serie di singoli interventi strumentali che preparano l’ingresso del solista.
La musica strumentale di Kancheli nasce da un forte legame con il canto, che a sua volta ha radici profonde nella antica tradizione georgiana, alla quale ritorna sempre il suo pensiero poetico.

La cifra costante della sua musica, tuttavia, è la nostalgia, che da una parte presuppone la consapevolezza di un impossibile ricongiungimento con i suoni e i canti della sua terra, e dall’altra implica una costante tensione tra una disperata sensazione di lontananza e un drammatico senso di lacerazione

Anche in questo lavoro la voce del violoncello, particolarmente cara a Kancheli, è circondata da una polifonia di volta in volta ascetica e carnale, rarefatta e materica, onirica e inquietante. Lo stile contemplativo di Kancheli in realtà non si è trasformato nel tempo, ma piuttosto si è fatto più asciutto e saggio, raffinando il linguaggio associativo per creare forme statiche e frammentarie sempre ai margini del silenzio ma anche costantemente minacciate da improvvise accensioni sonore. La sua musica invita l’ascoltatore a riscoprire la forza di un linguaggio costruito su strutture elementari come le tonalità e le melodie diatoniche, il coraggio di accettare le sfide della trascendenza, il raro dono di vivere il tempo senza ingabbiarlo in forme rigide e infine il piacere di lasciarsi andare a un flusso di sensazioni impudentemente emotive.          

Nell’anno 1913, nel mio disperato tentativo di liberare l’arte dal giogo dell’oggettività –raccontava il pittore russo Kazimir Malevic – mi sono rifugiato nella forma del quadrato e ho esposto un quadro che consisteva di nient’altro che di un quadrato nero su un fondo bianco

Il punto zero dell’arte moderna, il Quadrato nero, segna l’inizio dell’astrattismo e in particolare del Suprematismo, una corrente artistica legata quasi esclusivamente al nome di Malevic. Nel 2016 Peter Eötvös visitò all’Albertina di Vienna una mostra dedicata alle avanguardie russe del Novecento, «Chagall bis Malewitsch», e rimase molto colpito dal fatto che Chagall, dopo aver invitato Malevic a insegnare nella sua scuola, perse nel giro di un paio d’anni tutti gli allievi. I giovani preferivano studiare i rettangoli rossi e le strisce nere di Malevic piuttosto che lo stile poetico e fantasioso di Chagall. Il frutto musicale di questa riflessione fu Reading Malevich, eseguito per la prima volta l’1 settembre 2018 a Lucerna dalla Lucerne Festival Academy Orchestra diretta da Matthias Pintscher.

Eötvös, nato come Kurtág e Ligeti in una terra multietnica come la Transilvania, è sempre stato influenzato dalle arti visive, in particolare dal cinema. Le partiture che adoperava per dirigere, per esempio, sembrano delle tavolozze, zeppe di segni colorati per evidenziare i vari dettagli del lavoro. Non è sorprendente, dunque, che Eötvös abbia preso spunto da un quadro di Malevic, Composizione suprematista n. 56 del 1916, per un lavoro che si propone esplicitamente di tradurre in suoni e forme musicali un’immagine puramente visiva. Ovviamente la dimensione geometrica e astratta della pittura di Malevic rende più coerente il tentativo di tradurre in musica, un linguaggio che prende forma nel tempo, una forma di tempo congelato come la pittura. Inoltre, perlomeno dalla seconda metà dell’Ottocento, siamo abituati a usare il colore come metafora del suono, per distinguere i vari strumenti dell’orchestra. Eötvös, però, fa un passo in più.

Le due parti del lavoro, Horizontal e Vertical, corrispondono agli assi principali usati dagli occhi per leggere un libro e per guardare un quadro. La scrittura musicale si sviluppa in maniera analoga, in orizzontale quando si segue l’andamento di una melodia, e in verticale quando si ascoltano simultaneamente i suoni che formano un accordo

Un virtuoso della scrittura orchestrale come Eötvös non poteva che sfruttare nella maniera più spettacolare questi spunti, componendo un lavoro estremamente vario e fantasioso che richiede strumenti di solito non presenti in orchestra come l’organo Hammond, la chitarra elettrica, il cymbalom ungherese, oltre a una quantità di tecniche esecutive avanzate per gli strumenti acustici tradizionali.

Nella partitura sono indicate in maniera esplicita tutte le forme colorate del quadro di Malevic che corrispondono all’immaginazione musicale di Eötvös, dal rettangolo marrone al punto nero, ciascuno con una sfumatura timbrica, ritmica e armonica specifica. La musica di Eötvös, figlio dell’avanguardia ma cresciuto nell’estetica postmoderna, ha successo nel rendere l’illusione spaziale della pittura di Malevic, che pur nella forma piatta e bidimensionale della pittura cerca di catturare il movimento di corpi che fluttuano nello spazio. Eötvös tenta la stessa strada, in termini puramente musicali, dilatando la dimensione temporale in una dialettica tra l’impulso ritmico e la sua sospensione, sicuramente influenzato dallo stile sound-mass di Ligeti, ma non fino al punto di condividere il carattere informale di partiture come Atmosphères. Il suo astrattismo è temperato da un costante richiamo alla tradizione sinfonica, che si allunga su tutta la sua produzione.
  
Alcuni anni prima, nel 2014, Eötvös aveva composto un altro lavoro che centrava in pieno i presupposti dell’estetica postmoderna. Per l’Internationale Stiftung Mozarteum di Salisburgo e altre istituzioni internazionali, infatti, il compositore ungherese scrisse da capo (Mit Fragmenten aus W. A. Mozarts Fragmenten), un lavoro per cymbalom (o marimba) e ensemble che come dice il titolo prendeva spunto da una serie di frammenti e idee musicali di Mozart rimaste allo stadio di abbozzi o sviluppati poi in un’altra forma. Era una maniera di dialogare, di giocare con la musica di Mozart da parte di un compositore contemporaneo, che prova a immaginare possibili (e impossibili) sviluppi delle sue idee, partendo da temi mozartiani perfettamente riconoscibili ma trasformandoli più e più volte – ovvero da capo – in maniera del tutto originale, mettendo bene in vista la distanza storica che separa i due interlocutori. Il viaggio musicale di Eötvös, sviluppato in nove cicli generati da undici frammenti, era reso avventuroso anche dal fatto di dare un risalto solistico a uno strumento, sia che fosse il cymbalom ungherese per il quale era stato pensato o la marimba, che Mozart non poteva conoscere.

Un paio di anni dopo, nel 2016, Eötvös riscrisse il lavoro per grande orchestra, integrando la parte solistica nella scrittura orchestrale. In questa nuova versione, intitolata Dialog mit Mozart – da capo per orchestra, il lavoro è stato eseguito per la prima volta dalla Mozarteumorchester diretta da Mirga Grazinyte-Tyla il 17 dicembre 2016.

La scelta dei frammenti segue una logica molto giocosa, sulla falsariga di un’intervista impossibile tra due compositori che appartengono a epoche diverse

Eötvös, per esempio, fu molto incuriosito dal fatto che tra i frammenti messi a disposizione dal Mozarteum figurassero numerosi incipit di Kyrie, presto scartati. Uno di questi Kyrie, infatti, diventa l’inizio del dialogo, dopo una breve introduzione più nello spirito che nello stile di Mozart. Ogni nuovo frammento di questo biunivoco viaggio nel tempo, sia dal passato verso il presente che viceversa, è segnalato da un richiamo di crotali, uno strumento a percussione composto da una serie di dischetti metallici dal suono penetrante e argentino. L’ultimo frammento è una dionisiaca giga degli archi irrobustita da una ricca sonorità percussiva, che chiude il breve lavoro con una giocosa allegria teatrale

Che immagine di Mozart ci restituisce il Dialog di Eötvös? In parte l’enigmatica maschera sublime e infantile del film Amadeus, ma forse anche il ritratto di una generazione piena di dubbi e d’interrogativi smarrita nel labirinto dei rapporti tra l’antico e il moderno