Le note di sala del concerto n. 14 della stagione 2024/2025 dell'Orchestra Rai

Le note di sala del concerto n. 14 della stagione 2024/2025 dell'Orchestra Rai

Luciano Berio e Dmitrij Šostakovič

Le note di sala del concerto n. 14 della stagione 2024/2025 dell'Orchestra Rai
Luciano Berio
Folk Songs, per voce e orchestra

Ho sempre provato un senso di profondo disagio ascoltando canzoni popolari cantate con accompagnamento di pianoforte. È per questo e, soprattutto, per rendere omaggio all'arte e all'intelligenza vocale di Cathy Berberian che, nel 1964, ho scritto Folk Songs per voce e sette strumenti e, successivamente, per voce e orchestra da camera. Si tratta, in sostanza, di un'antologia di undici canti popolari di varia origine (Stati Uniti, Armenia, Provenza, Sicilia, Sardegna ecc.) trovati su vecchi dischi, su antologie o raccolti dalla viva voce di amici, che ho reinterpretato ritmicamente, metricamente e armonicamente.
Il discorso strumentale ha la funzione di suggerire e di commentare quelle che mi sono parse le radici espressive, cioè culturali, di ogni canzone
Queste radici non hanno solo a che fare con le origini delle canzoni stesse ma anche con la storia degli usi che ne sono stati fatti quando non si è voluto distruggerne o manipolarne il senso.
Due di queste canzoni (La donna ideale e Ballo) sono popolari solo nelle intenzioni, infatti, le ho composte io stesso nel 1947. La prima sulle parole scherzose di un anonimo genovese, la seconda su un testo di un anonimo siciliano.

Luciano Berio
(dagli archivi Rai)



Dmitrij Šostakovič
Sinfonia n. 4 in do minore op. 43

L’Unione Sovietica degli anni Trenta era un terreno insidioso per chi aveva a che fare con l’arte. Tutti i giornali parlavano di formalismo, la terribile etichetta che bollava chi non si atteneva alle direttive del Partito Comunista. Anche la musica, naturalmente, era sotto accusa; a salvarsi erano solo quelle pagine scritte con la chiara intenzione di infondere il forzato ottimismo invocato dai dirigenti del regime: proprio quell’esigenza di inventare valori positivi, anche quando tutto sta andando a pezzi, che Orwell descrive alla perfezione nella Fattoria degli animali.

Le forbici della censura avevano già fatto visita a Šostakovič nel 1934, quando l’opera Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk era stata ritirata dalle scene perché «dannosa al popolo sovietico». La recensione apparsa sulla «Pravda» parlava chiaro fin dal titolo («Caos anziché musica»); e fu in quell’occasione che Šostakovič capì di essere costretto a trovare una mediazione tra le esigenze creative e l’occhio vigile dello stalinismo. La prima vittima, nel 1936, fu proprio la Quarta sinfonia: un’opera sperimentale, a partire dall’architettura in tre movimenti, che Šostakovič pensò bene di lasciare in un cassetto. Una prima esecuzione in realtà era stata anche prevista: Otto Klemperer era pronto a dirigere la nuova opera. Ma Šostakovič tornò sui suoi passi, e scelse di non dare in pasto al pubblico – ma soprattutto ai rappresentanti del regime – la sua ultima fatica sinfonica. In seguito, avrebbe raddrizzato il tiro definendo la partitura
un’opera mancata, imperfetta nella forma e troppo lunga, nonché soggetta a una certa mania di grandezza
Ma viene da pensare che quel gesto avesse un significato completamente opposto: forse proprio un inconscio desiderio di custodire con gelosia un lavoro amato. La fibra ambiziosa della Sinfonia sembra confermare questa ipotesi, svelando un impegno davvero eccezionale. Peccato solo che la partitura sia finita nelle mani sbagliate: quelle di Aleksand Gauk, che chiese in prestito il manoscritto, per poi perderlo chissà dove. Grazie alla pazienza di Levon Atovmajan, nel 1961, la composizione venne ricostruita, sulla base delle parti d’orchestra, che invece erano rimaste in casa Šostakovič. Solo allora, a otto anni dalla morte di Stalin, l’opera poté finalmente essere eseguita a Mosca sotto la direzione di Kirill Kondraščin.

Sulla mania di grandezza forse Šostakovič non sbagliava: l’autocritica in realtà coglieva il punto più debole della composizione, così visionaria e complessa da risultare poco compatta; un viaggio talmente articolato da farci dimenticare il punto da cui siamo partiti. Ferruccio Tammaro ha parlato di
colata compositiva rimasta allo stato grezzo
a proposito della Quarta sinfonia; e la lettura è senza dubbio centrata, perché ciò che colpisce di questa monumentale pagina è proprio l’enorme varietà di materiale, spesso trattato con la chiara intenzione di fare esperimenti sulla massa orchestrale. Tutte idee interessanti, che tuttavia sembrano rifiutare ogni forma di cucitura: fugati di grande virtuosismo, esplosioni collettive, zoomate sulla dimensione cameristica (con frequente spazio ad alcuni incroci tra due o tre fiati isolati dal contesto), cluster suonati a pieni polmoni dai fiati (violenti agglomerati di tante note in relazione dissonante). Ogni dettaglio è interessante, ma l’insieme prende una forma labirintica, difficile da dominare con uno sguardo complessivo.
 
Mahler è dietro l’angolo: non solo per il gigantesco organico (legni a quattro, otto corni, due tube e numerose percussioni, celesta), ma anche per il tentativo di affrontare un discorso formale di proporzioni smisurate.
Nel secondo movimento, ad esempio, il tono grottesco, che Šostakovič utilizza per filtrare il ritmo di danza ternaria, riesce a restituire l’immagine di un valzer deformato dalle angosce del Novecento
Mahler era stato maestro in queste operazioni. Ma Šostakovič riesce ad andare oltre: la Russia poteva contare su un secolo di umorismo gelido, fin dai tempi di Gogol’. Non stupisce dunque il fatto che la Quarta sinfonia cammini sempre sul sottilissimo filo che separa la tragedia dalla commedia: la marcia funebre che apre il finale lo dimostra, partendo da un registro beffardo che sembra danzare sui dolori dell’Ottocento.
Il suo sviluppo non fa che amplificare questa sensazione, lavorando con grandi risorse orchestrali su un uso ossessivo del ritmo: figurazioni ripetute all’infinito proprio con l’obiettivo di imprigionare l’ascoltatore all’interno di un labirinto privo di uscita
Il tono generale è spesso leggero (molti cinguettii dei legni ricamano le sezioni acute della partitura), ma il percorso senza vie di fuga disegnato dal compositore è agghiacciante.     

Andrea Malvano
(dagli archivi Rai)