Le note di sala del concerto n. 16 stagione 2024/2025

Le note di sala del concerto n. 16 stagione 2024/2025

4 e 5 aprile. Auditorium Rai Torino

Le note di sala del concerto n. 16 stagione 2024/2025
Sergej Rachmaninov 
Concerto n. 3 in re minore 
per pianoforte e orchestra, op. 30 (1909)

Il Rach 3 
Il Terzo Concerto di Rachmaninov è diventato per tutti il “Rach 3”. Non parlo solo degli addetti ai lavori, naturalmente, ma di una larga fetta di società che comprende anche quelli che non hanno mai messo piede in una sala da concerto. Il fatto - certamente sorprendente nell’era del pop - si deve alla vasta popolarità del film Shine (1996), l’opera prima dell’americano Scott Hicks, che ha scelto proprio la composizione di Rachmaninov per stigmatizzare la lotta del pianista David Helfgott contro una malattia nervosa, forse causata dalla musica stessa: una scelta indubbiamente azzeccata proprio perché lo sforzo di Helfgott a confronto con il “Rach 3” diviene l’emblema di una prova ardua, al confine tra l’arte e la vita.

Il nomignolo in realtà fu coniato in terra americana, perché avvenne proprio a New York il battesimo del Terzo Concerto (con l’autore al pianoforte), la sera del 29 novembre 1909. Rachmaninov all’epoca non aveva ancora deciso di abbandonare definitivamente la sua amata Russia (la scelta si sarebbe resa necessaria solo dopo il 1917), ma quella prima tournée negli Stati Uniti gli aveva aperto le porte di un mondo affamato di miti: anche démodé - poco importava - tanto a New York o Los Angeles la gente non aveva mai vissuto l’Ottocento musicale di Liszt e Chopin. L’America non andava al concerto fin dai tempi di Bach; da quelle parti serviva un compositore che non fosse ai ferri corti con il passato, e Rachmaninov, con il suo sguardo ostinatamente rétro, sarebbe stato l’uomo giusto nel posto giusto. Quel pubblico poco ingessato, che storceva il naso davanti alle avanguardie, lo avrebbe accolto con amore paterno: per questo si sarebbe potuto permettere di familiarizzare, a suon di nomignoli, con la produzione di Mr Rach.
Naturalmente il Terzo Concerto ha sempre avuto qualcosa di “hollywoodiano” nella sua spettacolare esibizione di virtuosismo; non a caso fu solo grazie a uno straordinario pianista come Vladimir Horowitz che riuscì a diventare una pietra miliare del grande repertorio (pare che lo stesso Rachmaninov abbia smesso di suonarlo, proprio dopo aver conosciuto l’impeccabile interpretazione del giovane collega)
Ma c’è qualcosa nella partitura che mantiene le radici ben piantate in quella cultura russa, che Rachmaninov non avrebbe mai dimenticato, nemmeno negli anni in cui veniva ricoperto d’oro dagli americani.

Il primo tema dell’Allegro ma non tanto, suonato all’unisono dalle due mani del pianista (quasi un foglio d’album di grazia infantile, incastonato in una composizione profondamente adulta e nerboruta), ha certamente la fisionomia di un canto popolare ascoltato in una terra sentita come materna. Le altre idee (specie il secondo tema cantabile) sembrano più vicine a quel romanticismo in stato di decomposizione, che negli anni di Debussy e Bartók poteva solo contare sul fascino degli oggetti consumati dal tempo.
Ma a tenere insieme il tutto è certamente quel brulichio di note, quasi in preda all’horror vacui, che solo Rachmaninov nel corso del Novecento sarebbe stato ancora in grado di usare per ipnotizzare l’immaginazione dell’ascoltatore
Anche l’apertura dell’Intermezzo fa correre il pensiero alla tradizione musicale russa; Giorgio Pestelli vi ha rilevato la stessa malinconia che anima il Preludio dell’Evgenij Onegin; forse c’è anche qualche traccia della trasognata rassegnazione che di tanto in tanto viene fuori dalle ultime sinfonie dello stesso Čajkovskij. Rachmaninov però non se la sente di procedere sullo stesso tono per tutto il pezzo, e impenna la scrittura verso le sue tipiche vette di passionalità accesa. In questo modo, alla fine dell’Adagio si trova tra le mani un discorso brillante, perfetto per innescare (senza soluzione di continuità) la prorompente vitalità ritmica del Finale: una pagina che mescola insieme un po’ tutto lo scibile delle chiusure concertistiche, alternando passaggi di perlacea leggerezza, omaggi al mondo demoniaco di Liszt, squarci lirici di intensa emotività e massicci episodi accordali.

Rachmaninov al pianoforte 
Grazie all’attività concertistica Rachmaninov ottenne fama, ricchezza e notorietà; i soldi degli enti concertistici americani gli garantirono tutti i beni di lusso sognati da un uomo della prima metà del Novecento: un’automobile, un motoscafo, una tenuta costruita su misura (Villa Senar, sul lago di Lucerna, che prese il nome dalle sue iniziali unite a quelle della moglie Natalja). Fino a pochi anni prima di morire era capace di dare anche una settantina di concerti l’anno. Non era, però, uno showman di quelli che mandano in visibilio le folle con gesti plateali. Il modo in cui riusciva a incantare il pubblico non aveva niente in comune con le funamboliche esibizioni delle generazioni precedenti.
Rachmaninov appariva sul palco con espressione severa; si avvicinava al pianoforte senza indugiare; e suonava cercando di calcolare con precisione ogni singolo movimento, senza sacrificare energie alla spettacolarità
Il cronista del «Times» nel 1908 scriveva:
L’assenza di ogni stravaganza ne è la caratteristica più ragguardevole
Era il suo misterioso “suono”, di cui le incisioni fonografiche ci forniscono solo una velata idea, a colpire il pubblico; qualcosa di robusto e insieme dolce che denotava un marchio di fabbrica perfettamente riconoscibile. E stesso discorso vale per la sua tecnica del rubato, quella curiosa etica dell’interpretazione che spinge l’esecutore a riconsegnare tutto ciò di cui si appropria indebitamente: i dischi ci restituiscono tutta la straordinaria sensibilità di un pianista impeccabile nel suonare “in tempo” gli accompagnamenti, a fronte di un’estrema libertà nel tratteggiare le linee melodiche.

Andrea Malvano (dagli Archivi Rai)

Ludwig van Beethoven
Sinfonia n. 5 in do minore, op. 67

Anton Schindler racconta che Beethoven, richiesto di spiegazioni sul significato della Quinta Sinfonia, rispondesse che il famoso motto iniziale era il destino che bussa alla porta. Per quanto sbiadita, quest’immagine non è una metafora da liquidare come un vecchio arnese della mitologia beethoveniana ma merita un’analisi più approfondita. L’idea che il mondo sia regolato da imperscrutabili forze trascendentali era uno sperimentato artificio retorico di Beethoven.
Potessi liberarmi solo a metà del mio male - scriveva il 16 novembre 1801 Beethoven all’amico di Bonn Franz Wegeler, informandolo della sua incipiente sordità - verrei da voi a rinnovare, da uomo più completo e più maturo, gli antichi sentimenti di amicizia [...] Voglio afferrare il destino alla gola, non riuscirà di certo a piegarmi totalmente – oh, è così bello vivere mille volte la vita
Il Destino s’incarnava per Beethoven nella realtà circostante. Esso causava la sua sordità, le delusioni amorose, l’invidia dei colleghi, le critiche malevoli “degli imbrattacarte”, la mediocrià di musicanti, la stupidità dei copisti, la “mentalità ristretta” dei nobili viennesi, la politica morta di Napoleone, e via imprecando e mugugnando su tutto. “La sola certezza sulla quale possiamo contare è il cieco caso”, commenta disilluso. La musica diventa l’unico strumento per opporsi a questa tirannia del destino, l’unico luogo in cui fosse possibile ristabilire la legge morale. Dalla corrispendenza di Beethoven, uomo che preferiva “scrivere 10.000 note piuttosto che una sola lettera dell’alfabeto”, trabocca un eroismo solitario e virile, modellato sulle figure di Plutarco. Il manoscritto della Quinta è un campo di battaglia, insanguinato d’inchiostro.
Ogni foglio rivela la fatica di trovare, nota dopo nota, la strada giusta in mezzo al buio
La Sinfonia op. 67 nasce, dopo vari anni di gestazione, in un memorabile concerto al Theater an der Wien il 22 dicembre 1808, con un programma che comprendeva anche la Sinfonia Pastorale, l’aria da concerto “Ah, perfido!” op. 65, il Gloria e il Sanctus della Messa op.86, il Quarto Concerto per pianoforte.

Nella Quinta un orgoglioso spirito faustiano ruggisce nella gabbia di una struttura ancora classica. I quattro movimenti, infatti, sono distribuiti secondo il canone, con un Andante con moto come tempo lento e un Allegro al posto del minuetto-scherzo. L’architettura tradizionale regge però il peso di un’orchestra più robusta. Nel Finale i confini sonori si espandono verso l’alto con un flauto piccolo, verso il basso con un controfagotto, e ai lati con la potenza di tre tromboni. L’energia che scaturisce da questo attrito è concentrata soprattutto in una forza gestuale senza precedenti, che a Goethe dava l’impressione di un terremoto. L’unisono iniziale è la quintessenza dello stile icastico. Il tema principale si riduce a un ritmo, non di danza e neppure di marcia, come il carattere genericamente marziale della Sinfonia lascerebbe immaginare. Il ritmo predomina assoluto, incalzante, calato in una dimensione astratta. Niente rende meglio l’incontenibile energia del tema iniziale che la corona sulla semibreve, infilata come una zeppa tra i raggi di una ruota. Di fermate e di sospensioni del tempo se ne trovano oltre misura nella Quinta.

L’articolazione musicale acquista così una sfumatura retorica, a cui evidentemente l’esperienza del Fidelio non era estranea. Andante con moto, scrive Beethoven sulla pagina del secondo movimento. La frase di viole e violoncelli avanza con passo elegante ma inquieto, senza un momento di requie. C’è sempre uno strumento pronto a riprendere il filo del discorso e a portarlo verso nuove direzioni. La vecchia forma leziosa del tema con variazioni è completamente travolta dall’energia di questo vitalissimo erede. Un sentimento grandioso, l’infinito che appartiene alla natura, prende il posto della galanteria nell’Allegro successivo. Né Minuetto, né Scherzo, questo fossile di danza mette al posto del trio un fugato stretto. La coda funge da elemento di sutura con il poderoso finale in do maggiore. Questo straordinario, misterioso pianissimo, marcato dal battito del timpano, è forse la prima espressione di quella “musica primordiale del mondo” così intrinseca alla musica tedesca, dal Ring di Wagner al Wozzeck di Berg.
La sinfonia, ormai culmine di tutti i generi musicali, diventa un atto di volontà dell’autore, che esprime se stesso e interpreta il mondo nella sua essenza
Forse non è un caso che Beethoven, mentre compone la Quinta, insista con il suo editore per pubblicare, anche senza compenso, la Messa in do maggiore op.86. Sembra del tutto coerente che la Quinta, violenta e profondamente radicata nelle passioni umane, sia gemella di una Sinfonia tanto diversa nel carattere come la Pastorale, intrisa di un sentimento religioso della Natura.
Beethoven descrive nella Sinfonia in do minore un viaggio nell’Inferno, popolato di immagini grandi e terribili. Per raccontare l’Inferno, però, bisogna uscirne vivi, e che al dolore succeda la speranza

Oreste Bossini (dagli Archivi Rai)
 

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