Scemi di guerra
Intervista a Oscar Greco
Un'intervista a Oscar Greco (storico dell’Università di Calabria) sulla sua ricerca dedicata ai soldati meridionali della Prima Guerra Mondiale, internati nel manicomio di Girifalco (Catanzaro). Oscar Greco è autore del testo I demoni del mezzogiorno. Follia, pregiudizio e marginalità nel manicomio di Girifalco (1881-1921), Edizioni Rubbettino, 2018.
Per effettuare la sua ricerca è partito dagli esiti di studi già effettuati in passato da altri studiosi?
Nel 1979 Eric J. Leed pubblica uno studio sulla Grande guerra che affronta il tema del primo conflitto mondiale non più in termini di storia politica e militare, ma attraverso l’analisi della sensibilità e del mondo interiore di coloro che all’esperienza bellica parteciparono direttamente e ne vennero scardinati. Leed si sofferma sulle personalità plasmate dalle vicissitudini belliche e in particolare sui «problemi psichici causati dall’esperienza di guerra che comportarono sovente una profonda dissociazione, una discontinuità vera e propria a livello individuale» e, analizzando le testimonianze dei combattenti con gli strumenti dell’antropologia e della psicologia, mette a nudo i casi in cui nella personalità del soldato si scava un vuoto, una sorta di «terra di nessuno» psicologica. Questa angolatura del tutto nuova rispetto ai tradizionali studi storici sull’argomento ha consentito di rileggere in modo originale la Grande guerra attraverso lo studio delle emozioni, dell’immaginario e dei mutamenti della personalità dei reduci. Un approccio inedito che ha spalancato le porte allo studio delle sofferenze maturate a seguito dei traumi da guerra, frutto del contatto giornaliero con la violenza, con la paura, con la morte e con la terrificante potenzialità devastatrice della guerra moderna.
Su quali fonti si basa la sua ricerca?
Mi sono concentrato, in particolare, sullo studio delle cartelle cliniche degli internati, conservate nell’archivio del manicomio di Girifalco, che ho potuto consultare perché erano trascorsi 70 anni dalla loro compilazione. Documenti, fino ad oggi poco utilizzati dagli storici, perché ritenuti troppo vicini al punto di vista dei medici.
Affrancata dalle categorie classiche della storia militare, la ricerca storica ha trovato nella documentazione degli archivi dei manicomi e degli ospedali psichiatrici fonti di diversa natura – cartelle cliniche, comunicazioni con i parenti dei malati, relazioni delle autorità locali sul soggetto in cura e la sua famiglia – che hanno permesso di considerare sotto una nuova luce l’instabilità emotiva che migliaia di soldati patirono negli anni del conflitto, di verificare l’impatto dell’evento bellico sui parenti degli ammalati e sulla comunità di appartenenza e nel contempo di accertare le difficoltà della scienza psichiatrica dell’epoca di individuare l’attinenza patogena tra guerra e disagio mentale.
L’effetto della Grande Guerra sulla psiche dei soldati è stato “fotografato” anche dallo psichiatra Marco Levi Bianchini che, nel suo “Diario di guerra”, descrive lo scatenarsi delle «tempeste sensoriali» conseguenti ai rumori rimbombanti e assordanti: “Rumori aspri e laceranti […] le voci e i timbri metallici dei pezzi nostri e nemici, che stridono, fischiano, miagolano, gemono […] il crepitare della fucileria, il tambureggiare dei cannoni” Marco Levi Bianchini rileva che tutto ciò, unitamente alle luci saettanti, al bagliore dei razzi e al lampeggiamento delle esplosioni, altera l’apparato psicorganico dell’uomo in guerra, il quale mostra una vera e propria incapacità di «accogliere, vagliare ed elaborare» questa inondazione di stimoli inusuali quanto intensi. Alla paura prolungata e ripetuta, all’emozione violenta subentrano manifestazioni psichico-fisiche incontrollabili, l’enuresi, il mutismo, i tremori e l’amnesia.
Che origini avevano i militari che venivano ricoverati a Girifalco?
Parliamo di un momento storico in cui la popolazione impegnata in agricoltura superava il 50% e i fanti dell’esercito italiano erano prevalentemente di estrazione contadina, con un elevato livello di analfabetismo. Molti di questi fanti, soprattutto nelle aree meridionali, erano abituati a vivere lontani dai centri abitati; non erano mai stati in una grande città, dove i segni del progresso cominciavano a essere evidenti, non avevano mai visto un centro industriale; vivevano ancora, sulle orme dei loro padri, secondo i ritmi della natura, governati dalle leggi del mondo rurale, con un immaginario e consuetudini rapportati alle vicissitudini di una vita agra e difficile nell’attesa di una modernità e di un progresso di cui sentivano solo gli echi lontani. Costoro, strappati dal loro universo sociale e mentale e improvvisamente scaraventati al fronte, impattano con l’altra faccia dello sviluppo e fanno i conti con una realtà per loro terrificante: conoscono la meccanica dei tiri d’obice, sentono l’odore dei gas letali e ne vedono gli effetti sui volti dei compagni soffocati, subiscono il trauma dell’artiglieria pesante che cannoneggia senza sosta mentre si sentono ingabbiati nelle trincee.
Una volta catapultati in prima linea, i soldati sono costretti a fare i conti con il trauma della violenza e del conflitto che li porta alla morte. Se vogliono evitarlo, sia pure inconsciamente, per salvare la pelle a qualsiasi costo, gli rimane solo la follia. E’ così?
A queste masse subalterne, scarti di una civiltà che non conoscevano e da cui erano esclusi, il fragore della Grande guerra dimostrò la micidiale ambivalenza dell’agognata modernità. Tutto ciò ha segnato uno spartiacque nel loro recinto mentale e ha inciso sul loro modo di concepire la vita e la morte, privandole di quella ritualità secolare alla quale erano abituati. Predestinati, impotenti di fronte a eventi straordinari che non capivano e non potevano governare, troveranno nella follia o nella sua simulazione, una via di fuga. Di fronte all’impossibilità pratica di una fuga reale si ricorre alle vie di fuga interiori, a quella forma di diserzione virtuale che è la malattia. La follia del soldato individuale e inconsapevole di diserzione, si manifesterà con forme di regressione di pensiero e di comportamento irrazionali, mitiche, magiche, che assumeranno rappresentazioni psichiatriche diverse quali la depressione, il “mutacismo”, il disorientamento.
Le patologie psichiatriche si sono manifestate in tutti i paesi belligeranti? Che dimensioni ha raggiunto il fenomeno?
Le nevrosi generate durante e a seguito della Prima Guerra Mondiale furono un fenomeno nuovo e presente in tutti i Paesi belligeranti, con una dimensione notevole se si considera che, secondo le stime della storiografia recente, i ricoveri per ragioni nervose e mentali durante il conflitto furono in Francia circa 300.000, in Germania circa 400.000; in Inghilterra le stime oscillano tra 80.000 e 200.000. In Italia i ricoverati, sulla base delle stime dei consulenti psichiatri dei corpi d’armata, furono 40.000, numero solo apparentemente limitato se si tiene conto dell’inferiorità numerica dell’esercito italiano. A luglio 1916 militari neuropatici erano 20.000 unità, e quando, dopo Caporetto, gli ospedali da campo a ridosso del fronte sono smantellati, si capisce che non sempre è possibile l’auspicato trattamento rapido ed efficace dei malati e si impone lo smistamento degli alienati in sezioni speciali dei manicomi civili del Regno.
Che posizioni ha assunto la psichiatria italiana di fronte al fenomeno dei soldati neuropatici?
La psichiatria italiana agiata sui «valori» e sulle esigenze dei comandi militari è giunta a conclusioni radicali, negando ciò che appariva evidente e, cioè, che il conflitto era uno straordinario agente patogenetico, ovvero a interpretazioni compromissorie volte a dimostrare che il trauma da guerra, che non poteva non essere riconosciuto, si sviluppava nella maggior parte dei casi «su un terreno già costituzionalmente predisposto».
Come si è organizzato il servizio sanitario militare per fare fronte a questo imprevisto?
Il servizio sanitario militare, allo scoppio del conflitto mondiale, si trovò impreparato di fronte alla portata e alla natura delle patologie ricollegabili ai traumi di guerra. Il gran numero dei traumatizzati psichici, che non potevano essere tutti considerati detriti da scartare, impose una riorganizzazione che si realizzò con la nomina di Augusto Tamburini a «generale medico assimilato» posto a capo del Servizio psichiatrico di guerra, e con l’assegnazione di quattro eminenti consulenti psichiatri alle quattro Armate (Arturo Morselli per la prima, Vincenzo Bianchi per la seconda, Angelo Alberti per la terza e Giacomo Pighini per la quarta). Venne istituito un Centro militare di prima raccolta a Reggio Emilia e vennero organizzati reparti sanitari a ridosso del fronte: i cosiddetti «villaggetti psichiatrici» ai quali era affidato il compito di smascherare i simulatori e di effettuare rapide diagnosi, terapie solerti con degenze brevi per rimandare subito al fronte i soldati guariti. Veniva in tal modo affidato alla psichiatria un ruolo disciplinare, in cui il giudizio clinico doveva essere necessariamente sommario di fronte a patologie sostanzialmente considerate «sindromi transitorie».
Come si è trasformato l’ospedale psichiatrico di Girifalco, già attivo in Calabria da fine ‘800, quando la sua direzione ha dovuto provvedere all’istituzione di un nuovo reparto dove accogliere i militari? Si è trattato di un numero di nuovi pazienti significativo?
L’istituzione a Girifalco del Reparto psichiatrico per i militari, a seguito della convenzione stipulata con il ministero della Guerra, ha trasformato sensibilmente l’organizzazione del manicomio, la tipologia dei ricoverati e le prassi diagnostiche e terapeutiche. Già dopo pochi mesi dall’entrata in guerra dell’Italia il numero delle ammissioni cresce progressivamente con l’arrivo dei militari provenienti dal fronte, dai villaggi psichiatrici in zone di guerra o da altri manicomi e prosegue dopo l’armistizio fino al 1922, anche per effetto della chiusura del Reparto per militari del manicomio di Bari. Durante il periodo bellico, dal 1915 fino al novembre 1918 la struttura di Girifalco ha accolto 498 militari; dopo l’armistizio e fino al 1922 i militari complessivamente ricoverati nel manicomio sono 623, dei quali l’82,1% è proveniente dal Mezzogiorno.
Che tipo di indicazioni ha ricevuto la direzione di Grifalco dalle autorità militari?
Seguendo le sollecitazioni dei vertici della psichiatria militare, il manicomio di Girifalco assolve senza tentennamenti il compito di restituire all’esercito in tempi brevi, durante il confitto, i soldati che accusano traumi psichici: si accelerano i tempi di ricovero, che vanno mediamente da poche settimane a qualche mese di degenza, aumentano sensibilmente le percentuali di guarigioni, vere o presunte (come dimostrano i tanti casi di ritorno in manicomio dopo una precedente dimissione), pochi sono i casi di lungodegenze. E tutto ciò malgrado il fatto, messo in evidenza dal direttore Frisco nella relazione annuale del 1918, che metà degli infermieri era stato richiamato alle armi e non era stato sostituito e che per circa tre anni l’unico medico del manicomio era lo stesso direttore, alle prese con centinaia di militari da esaminare, seguire e curare: si può immaginare con quale approfondimento e accuratezza l’unico psichiatra in servizio abbia potuto seguire centinaia di soldati.
Quali ulteriori dati sono scaturiti dall'esame delle cartelle cliniche elaborate dai medici di Grifalco?
Se le cartelle del 1915 e in parte quelle del 1916 sono in qualche modo dettagliate nella descrizione della sintomatologia e delle probabili cause del trauma psichico, con il passare del tempo diventano sempre più sin- tetiche e prive di dati che pur dovrebbero essere indispensabili. Non vi è traccia delle analisi e dei test di laboratorio che in precedenza venivano inviati dagli ospedali militari o dai manicomi da cui proviene il soldato; il diario clinico è assente; non vi è alcuna indicazione della terapia adottata e tutto lascia supporre che per la maggior parte dei militari giunti a Girifalco la cura consistesse nell’osservazione e nel riposo in un luogo lontano dal fronte.
Quale protocollo veniva osservato dai medici di Grifalco nell'ospedalizzazione dei soldati provenienti dal fronte?
Il primo atto di indagine consisteva nell’accertare se il soldato simulasse la malattia per evitare il ritorno al fronte; a volte tale riscontro era agevole e facilitato dalla condotta palesemente innaturale del militare, altre volte la ricerca della simulazione risentiva del pregiudizio diffuso che il soldato ricorre a ogni mezzo per sfuggire alla guerra, come dimostrano i tanti casi che gli stessi medici considerano dubbi. Nei casi in cui il trauma da guerra era inconfutabile, i medici, dopo aver verificato la sintomatologia e appreso le cause prossime che lo avevano determinato, ossia l’evento bellico scatenante, bombardamenti, ferite, esplosioni ecc., non mostrano particolare interesse verso le condizioni di vita del soggetto prima della chiamata alle armi, del suo stato di salute, del suo lavoro, dei suoi interessi, dell’ambiente in cui viveva, del suo livello culturale; non si chiedono fino a che punto la modernità devastante degli strumenti bellici incontrata al fronte abbia potuto incidere sulla psiche di alcuni soldati di estrazione rurale abituati a vivere in zone isolate, mai a contatto con le tecnologie moderne, in un clima culturale arcaico legato ai ritmi e ai riti del mondo agricolo primitivo.
E’ vero che i medici di Girifalco erano convinti che i traumi psichici da evento bellico si instaurassero in soggetti geneticamente predisposti?
Conformemente all’opinione diffusa nella psichiatria italiana sull’origine organica della malattia mentale e ritenendo che anche i traumi psichici da evento bellico si instaurassero in soggetti geneticamente o individualmente predisposti, anche gli psichiatri di Girifalco avevano come primo approccio l’obiettivo di accertare se nella famiglia del soldato vi fossero stati casi di malattia mentale o comunque situazioni morbose o abitudinarie, tipo sifilide, alcolismo ecc., tali da far ritenere una preesistente predisposizione al trauma psichico. Accertata, anche con sforzi e qualche dose di fantasia, una predisposizione ereditaria o individuale alla malattia mentale, fatta coincidere la realtà con le teorie dominanti, il medico ritiene di aver assolto il suo compito; sarà sufficiente una terapia di osservazione e di riposo a letto e qualche bagno caldo per ritemprare molti dei militari traumatizzati ancora recuperabili alla causa bellica; per gli altri, gli irrecuperabili in quanto gravemente ammalati, il ricovero in manicomio sarà stato utile a dimostrare che la guerra era stata l’occasione in cui si era definitivamente manifestata una malattia psichica latente.
Quali ulteriori spunti di riflessione aggiunge l’accesso alle cartelle cliniche dei soldati della Grande guerra internati nel manicomio di Girifalco?
In primo luogo mettono in risalto gli effetti dell’irruzione della macro-storia su un’istituzione periferica, tali da intaccarne le stantie categorie culturali attraverso cui, fino a quel momento, si «leggeva» il disagio psichico di una realtà sociale ed economica premoderna, legata a riti e tradizioni altrove sconosciuti. Il medico affronta la malattia mentale del militare proveniente dalle zone di guerra e la analizza non più in relazione alla sua vita e all’ambiente sociale, familiare e culturale di provenienza, ma la rapporta al momento storico del Paese e alle specifiche situazioni (eventi bellici, bombardamenti, ferite, vita di trincea ecc.) che appaiono le cause prossime del disagio mentale. Inoltre la cartella clinica si forma sulla base dei certificati e delle relazioni mediche dell’ospedale militare che invia al manicomio il soldato che denuncia il trauma psichico; è quindi un contenitore al cui interno si trova un’ipotesi di diagnosi formulata in base a documenti, dati e notizie provenienti da fonti diverse che lo psichiatra del manicomio acquisisce come dati certi e analizza e rivaluta sulla base della sua personale esperienza. A Girifalco il primo compito dello psichiatra è la verifica delle reali condizioni del soldato per accertare i casi in cui lo stesso possa essere subito restituito all’esercito impegnato nel conflitto (dopo l’armistizio, comprensibilmente, le simulazioni calano drasticamente e nell’82,7% dei casi viene riscontrata un’effettiva psicosi o nevrosi. In questa ottica il sospetto che dietro il trauma apparente si celasse una simulazione per evitare il ritorno al fronte è sempre presente nel momento dell’anamnesi e della diagnosi. Inoltre la questione viene affrontata in un contesto culturale segnato dalle opinioni di eminenti psichiatri militari che ritenevano che «la simulazione così come la diserzione» fossero «inequivocabili segni di debolezza mentale», riconoscibili spesso anche dalle «asimmetrie craniche», nonché «manifestazioni di degenerazione e criminalità innate»
Nel caso dei militari cosiddetti “simulatori”, a quali espedienti fanno ricorso per convincere i medici a tenerli lontani dal fronte attraverso il ricovero in manicomio?
A guerra intrapresa i casi di simulazione di soldati provenienti dal fronte aumentano: alcuni sono di agevole accertamento per le plateali, ingenue o furbesche manifestazioni poste in essere da soggetti non esperti nell’arte di «fare i matti». Col passare del tempo si affinano le capacità di simulazione di coloro che cercano una via di fuga da quella che ritengono una morte certa. I soldati imparano a ricostruire la propria anamnesi individuale e familiare, emulano i modelli patologici reali, ripropongono una sorta di copione che contiene alcune sintomatologie tipiche, i mal di testa, il mutismo, la tendenza all’isolamento. Consapevoli della radicata propensione della psichiatria per l’ereditarietà e la predisposizione, inventano tare ereditarie inesistenti. Insomma, imparano davvero a fare i matti e ciò rende più arduo il compito di svelatore del medico, soprattutto nei casi in cui obiettivamente possono nutrirsi dei dubbi.
E’ possibile elencare alcuni estratti biografici di soldati “simulatori” ricoverati a Girifalco?
Alfonso M. nato a San Valentino (SA), il quale, nel reggimento nel quale è arruolato, evidenzia epilessia, mutismo, contrazioni degli arti inferiori, perdita di urine e feci e, sporadicamente, rifiuta di alimentarsi. Ammesso in manicomio il 17 maggio del 1915, dopo breve osservazione, riceve uno schematico e netto giudizio medico nel quale si sostiene che il M. «simuli l’epilessia per evitare complicazioni derivanti dal suo essere un soldato, soprattutto in un momento storico delicato come questo». Viene dimesso poche settimane dopo l’ingresso, nel giugno dello stesso anno, per non «constatata pazzia». Altrettanto evidente è la simulazione di Mauro G. un calzolaio di Paternò arruolato nel 48º reggimento di fanteria, che mentre si trovava presso il campo di addestramento militare mostrava segni di disturbo mentale. In particolare, appresa la notizia di una sua imminente partenza per il fronte carsico si imbrattava la faccia con le proprie feci e si chiudeva in un ostinato mutismo. Ricoverato presso l’ospedale militare di Catanzaro si rendeva protagonista di manifestazioni violente e impulsive accompagnate da visioni terrificanti e allucinazioni. Arriva a Girifalco il 17 dicembre 1916 e vi resta pochi giorni, nei quali si dimostra tranquillo e ordinato e, anzi, temendo che possa essere scoperta la sua simulazione, sobilla gli altri internati al fine di organizzare all’interno dell’istituto una manifestazione di protesta contro il direttore Frisco per ottenere un allentamento della vigilanza su di lui. Allegata alla cartella clinica vi è una lettera dei carabinieri di Paternò del 5 gennaio 1917 che avvertono trattasi di un simulatore. È dimesso il 12 gennaio 1917 per non constatata pazzia. Sceglie con cura gli argomenti che dovrebbero comprovare il disturbo mentale un contadino ventitreenne di Sersale, Pasquale G., internato nel febbraio del 1918. In sede di anamnesi finge delle amnesie e non sa dire se sia stato in zona di guerra; dichiara di soffrire di cefalea, blenorragia e ulcera e soprattutto fa sapere che la madre è matta. I medici accertano che il militare ha la sifilide, ma non constatano alcun segno di disagio psichico e chiedono informazioni ai carabinieri sulla situazione familiare. A supporto delle affermazioni del soldato giunge una lettera del padre, il quale, senza far cenno a una malattia mentale della moglie, conferma che Pasquale ha avuto in passato disturbi mentali, ma contiene un’invocazione di clemenza al direttore che potrebbe essere interpretato come una velata richiesta di complicità “Caro signor Direttore ò ricevuto dallo municipio la notizia giorno 8 corrente dello vostro telegramma che avete spedito che mio figlio G. Pasquale per Causa di pazzia hanno portato Costà è si trova In vostra Custodia vi prego di ci avere un poco di Carità è Cremenza perché di questa malattia di à sofferto di più di prima che gli ha vacillato Il cervello che posso dirvi quanto mancanze à fatto mà lo dovuto perdonare perché gli sono patre cosi vi prego a voi Signor Direttore di ci avere un poco di carità come un buon patre di famiglia vi prego di essere tanto gentile di rispondermi è farmi sapere come passa mio figlio che lo appresso verrò à trovarlo che ora mi trovo ammalato è non sono in condizione di viaggiare con stima vi saluto e sono vostro amico e servo Ignazio G. fu pasquale.” Nel frattempo arriva la risposta dei carabinieri: non è vero che la madre sia un soggetto neuropatico eccitabile» e che Pasquale non ha mai sofferto di cefalea e aggiungono che il giovane «è stato sempre avverso all’adempimento degli obblighi militari» e che «dal luglio 1916 al dicembre 1917 rimase lontano dalle file dell’esercito mantenendosi disertore». Alla fine di aprile del 1918 Pasquale verrà dimesso per non constatata pazzia. Soprattutto durante la fase caotica dell’accavallarsi dei ricoveri, nel 1917 e in particolare dopo Caporetto, le notizie richieste ai carabinieri del comune di origine del militare diventano decisive per la formulazione della diagnosi e per lo smascheramento della simulazione. Il barese Pasquale P. di 32 anni, internato nel novembre 1917, afferma di «aver dimenticato di saper leggere e scrivere» dopo essere stato colpito da una scheggia sul Faidi (probabilmente si riferiva al Dosso Faiti sul Carso) e aggiunge che sua madre «in paese è chiamata Teresina la pazza». I carabinieri, interpellati, smentiscono tale circostanza e il militare è dimesso nel giro di un mese per non constatata pazzia. Un singolare caso di accertata simulazione, malgrado l’anamnesi familiare e personale secondo i canoni dell’epoca avrebbero dovuto indirizzare per l’esistenza del disagio mentale, è quello di Antonio P., un contadino appena diciottenne di Aci San Antonio di Catania, arrivato a Girifalco il 18 agosto del 1916. Dalla cartella clinica si apprende che il giovane, durante l’addestramento nel suo corpo d’armata, prima di essere mandato in zona di guerra, si allontanava. Giunto in campagna si svestiva completamente degli abiti militari e, rimasto in mutande, s’incamminava per una strada. Alla vista di un carretto cercava di salire a bordo ma, visto il diniego del cocchiere, lo aggrediva dando vita a una colluttazione. Ripreso, viene spedito in manicomio. Dalle prime verifiche sembra un ereditario morboso: sia il padre che il fratello si trovano in una casa di cura in provincia di Palermo per problemi psichici. I medici di Girifalco appurano anche che il P. è stato malato di sifilide, ma giudicano le sue stranezze come il frutto di una simulazione, avendo constatato che, giunto in manicomio, si era dimostrato tranquillo e perfettamente cosciente. Il militare insiste con i medici nel far notare l’ereditarietà familiare e li sprona a comunicare all’ospedale militare di Catanzaro questo dato, sperando di ottenere il congedo illimitato. Ma ciò, a parere dei medici, dimostra solo la volontà del paziente di «speculare» sui parenti malati. Il P. chiede di essere ammesso a lavorare, ma non gli è concesso perché sorpreso a confidare ad altri pazienti il suo intento di scappare dalla struttura, considerata ormai lampante la simulazione. Nel periodo di osservazione è curato con l’isolamento, la persuasione e le cure mercuriali per la sifilide. Finché le sue condizioni sono considerate floridissime e il 15 ottobre del 1916 viene dimesso per non constatata pazzia.
Ci sono dei casi in cui era obiettivamente arduo individuare il confine tra disagio mentale, intolleranza alla vita militare e simulazione?
Interessante è il caso di Vincenzo D. S., un giovane ventiquattrenne di Vibonata (SA), con istruzione elementare, soldato del 48º reggimento fanteria, che ha avuto ben quattro ricoveri in manicomio. È un classico caso di «fuga dalla guerra» con tutti i mezzi necessari. Durante il servizio militare presso il corpo di addestramento, e in attesa di partire per il fronte, fu affetto da febbre malarica e, per questi motivi, ricoverato presso l’ospedale militare di Catanzaro. Durante la degenza si mostrava persona molto eccitabile, impulsiva e violenta, tanto che in due occasioni aveva mandato in frantumi i vetri della camerata. Mentre si avvicinava il giorno del suo rientro al corpo, si allontanava dall’ospedale disertando. Arrestato e condotto in un primo momento nelle carceri di Monteleone, veniva poi internato a Girifalco il 10 dicembre 1916. L’équipe medica accerta che il soldato è affetto da sifilide e questo, a giudizio del prof. Frisco, spiega la gracilità del fisico. Poca attendibilità viene attribuita alle intemperanze emotive che avevano caratterizzato il suo ricovero in ospedale militare e, benché il soldato cerchi di spiegare con insistenza che durante la degenza sia stato preso da disturbi psicomotori e scatti di immotivata ira, il corpo medico avanza l’ipotesi della simulazione. Dopo la cura a base di mercurio, per la sifilide, il soldato appare più ordinato e tranquillo e, pertanto, dimesso per non constatata pazzia. Nella relazione medica di questo primo ricovero si legge che le intemperanze del D. S. sono attribuibili alla sua pessima condotta e non a un vero e proprio disturbo. Dagli atti risulta evidente come il procedimento a carico del soldato per diserzione abbia influenzato il giudizio dei medici, che tendono a sminuire la portata del disagio psicologico dando risalto alle vicende relative alla diserzione e alle relazioni degli ufficiali del corpo che lo descrivono come un pessimo soldato. Durante il primo ricovero gli veniva concessa una licenza di sei mesi che trascorreva a Vibonata. In questo periodo fu arrestato per furto. Mentre i carabinieri lo conducevano in carcere si ribellava improvvisamente con attacchi violenti verso i militi e, quindi, veniva nuovamente denunciato per insubordinazione. Dalle carceri del corpo d’armata evadeva nel marzo del 1917. Riacciuffato e ricondotto in carcere, poco tempo dopo, il 29 marzo, riusciva nuovamente a evade- re ma era prontamente ripreso dai carabinieri e tradotto in carcere a Bari. Durante la carcerazione mostrava sempre segni di alienazione mentale associati ad attacchi d’ira e violenza furiosi. Nel mese di aprile colpiva un altro detenuto in preda a uno stato allucinatorio e fu difficile, si legge dalla relazione dei carabinieri, tenerlo a bada. Per i diversi reati accumulati il D. S. fu condannato a cinque anni di reclusione da scontare a guerra finita. Durante la permanenza in carcere a Monteleone, prima della condanna, manifestava sintomi di alienazione mentale, ripetendo per ore e ore «guerra, guerra agli austriaci, morte a tutti, viva l’Italia» L’agente di custodia che accompagna la seconda volta il militare a Girifalco consegna al direttore del manicomio la relazione del reparto di custodia del carcere militare nella quale si sospetta la simulazione. Anche questa opinione influenza gli psichiatri di Girifalco: negli atti relativi al secondo ricovero non è mai indicata una patologia o manifestazioni di alienazione mentale, mentre si fa sempre riferimento alla condotta del D. S. e al suo status di «avanzo di galera». Ancora una volta è dimesso per non constatata pazzia. Spedito al fronte nella zona di guerra presso Aidussina (oggi Slovenia) manifestava gli stessi problemi di sempre, connessi a tentativi di fuga. Da un telegramma del comandante di reggimento proveniente da «zona di armistizio» si apprende che il D. S., persistente nel mantenere idee deliranti, aveva tentato nuovamente la fuga, ma questa volta a guerra conclusa, era infatti il 18 luglio 1919. Rientra di nuovo a Girifalco. Anche durante questo ricovero tenta di evadere e per questo viene denunciato. Ancora una volta sarà dimesso per non constatata pazzia. La condotta ripetutamente insofferente alla disciplina e alla vita militare e le continue manifestazioni di disturbi mentali, proseguiti anche dopo l’armistizio, lascia più di un dubbio sulla volontà simulatoria del soldato che sembrerebbe piuttosto un soggetto patologicamente intollerante e refrattario alla vita militare. Singolare è la vicenda di Michelangelo M., un meccanico analfabeta calabrese ammesso una prima volta in manicomio il 6 maggio 1916 con la diagnosi di frenosi maniaco-depressiva, stati di angoscia e malinconia ed eccessiva irritabilità. Proviene da una zona di guerra del basso Isonzo e, dopo una breve permanenza, i medici ritengono che i suoi racconti siano confusi e incerti e non consentono il formarsi di un’idea certa circa le sue patologie. Dopo un mese, con l’attenuarsi dei sintomi si ritiene inutile la degenza all’interno della struttura e il soldato è dimesso e mandato in licenza nel suo paese d’origine. Ma il sospetto che il soldato simuli la malattia mentale permane anche dopo le dimissioni, essendo i medici convinti che i disagi legati alla vita di trincea non siano di per sé causa sufficiente per l’instaurarsi di una malattia mentale. Nella documentazione allegata alla cartella clinica si trova una lettera del direttore del manicomio dottor Frisco alla compagnia dei carabinieri del paese del soldato con la quale si chiede se durante la licenza questi abbia manifestato disturbi di mente. I carabinieri rispondono che, pur avendo mantenuto una buona condotta, il soldato è senza dubbio «malato di mente». Il M. dopo meno di due anni è nuovamente ricoverato con la medesima diagnosi e anche in questa occasione i sanitari dubitano della veridicità del disturbo mentale. Nel corposo fascicolo, che so- miglia più a un’accurata indagine di polizia che a una descrizione patologica con le relative cure, si trova una toccante lettera della sorella del soldato del febbraio 1918 e indirizzata al direttore in cui si chiedono lumi sulle condizioni di salute del fratello e, a prova della sua reale instabilità mentale, il racconto della vita difficile del giovane costretto a vivere senza genitori, «morti bruciati» a seguito di un incendio della piccola casa di campagna di loro proprietà.
Sono stati archiviati dei casi in cui le simulazioni non sono affiorate, consentendo ai militari di raggiungere l’obiettivo di evitare la guerra?
Si e lo dimostra la storia di un militare calabrese che è riuscito a ingannare gli psichiatri di tre manicomi e i medici di un ospedale militare. Domenico A., un ventisettenne spaccalegna di Badolato, appena chiamato alle armi mostra sintomi di disturbi mentali e viene ricoverato nell’ospedale militare di Palmanova, ove viene riscontrata una malattia mentale; il soldato è inviato al manicomio di Reggio Emilia e, poco dopo, trasferito a quello di Siena. Viene, infine, inviato «per competenza territoriale» al manicomio di Girifalco, ove entra il 19 settembre 1917 con una diagnosi di psicosi epilettica. I medici calabresi confermano la diagnosi di epilessia, ma non notano comportamenti rilevanti sul piano del disagio mentale e interrogano più volte il giovane soldato per capire se lo stesso sia veramente malato di mente. Solo nell’aprile del 1918, si legge nella cartella clinica, dopo aver ottenuto a febbraio il foglio di riforma, Domenico ammette candidamente ai sanitari che «non è mai stato epilettico e che i disturbi furono sempre simulati per sottrarsi al servizio militare». Viene quindi dimesso il 17 maggio.
Per effettuare la sua ricerca è partito dagli esiti di studi già effettuati in passato da altri studiosi?
Nel 1979 Eric J. Leed pubblica uno studio sulla Grande guerra che affronta il tema del primo conflitto mondiale non più in termini di storia politica e militare, ma attraverso l’analisi della sensibilità e del mondo interiore di coloro che all’esperienza bellica parteciparono direttamente e ne vennero scardinati. Leed si sofferma sulle personalità plasmate dalle vicissitudini belliche e in particolare sui «problemi psichici causati dall’esperienza di guerra che comportarono sovente una profonda dissociazione, una discontinuità vera e propria a livello individuale» e, analizzando le testimonianze dei combattenti con gli strumenti dell’antropologia e della psicologia, mette a nudo i casi in cui nella personalità del soldato si scava un vuoto, una sorta di «terra di nessuno» psicologica. Questa angolatura del tutto nuova rispetto ai tradizionali studi storici sull’argomento ha consentito di rileggere in modo originale la Grande guerra attraverso lo studio delle emozioni, dell’immaginario e dei mutamenti della personalità dei reduci. Un approccio inedito che ha spalancato le porte allo studio delle sofferenze maturate a seguito dei traumi da guerra, frutto del contatto giornaliero con la violenza, con la paura, con la morte e con la terrificante potenzialità devastatrice della guerra moderna.
Su quali fonti si basa la sua ricerca?
Mi sono concentrato, in particolare, sullo studio delle cartelle cliniche degli internati, conservate nell’archivio del manicomio di Girifalco, che ho potuto consultare perché erano trascorsi 70 anni dalla loro compilazione. Documenti, fino ad oggi poco utilizzati dagli storici, perché ritenuti troppo vicini al punto di vista dei medici.
Affrancata dalle categorie classiche della storia militare, la ricerca storica ha trovato nella documentazione degli archivi dei manicomi e degli ospedali psichiatrici fonti di diversa natura – cartelle cliniche, comunicazioni con i parenti dei malati, relazioni delle autorità locali sul soggetto in cura e la sua famiglia – che hanno permesso di considerare sotto una nuova luce l’instabilità emotiva che migliaia di soldati patirono negli anni del conflitto, di verificare l’impatto dell’evento bellico sui parenti degli ammalati e sulla comunità di appartenenza e nel contempo di accertare le difficoltà della scienza psichiatrica dell’epoca di individuare l’attinenza patogena tra guerra e disagio mentale.
L’effetto della Grande Guerra sulla psiche dei soldati è stato “fotografato” anche dallo psichiatra Marco Levi Bianchini che, nel suo “Diario di guerra”, descrive lo scatenarsi delle «tempeste sensoriali» conseguenti ai rumori rimbombanti e assordanti: “Rumori aspri e laceranti […] le voci e i timbri metallici dei pezzi nostri e nemici, che stridono, fischiano, miagolano, gemono […] il crepitare della fucileria, il tambureggiare dei cannoni” Marco Levi Bianchini rileva che tutto ciò, unitamente alle luci saettanti, al bagliore dei razzi e al lampeggiamento delle esplosioni, altera l’apparato psicorganico dell’uomo in guerra, il quale mostra una vera e propria incapacità di «accogliere, vagliare ed elaborare» questa inondazione di stimoli inusuali quanto intensi. Alla paura prolungata e ripetuta, all’emozione violenta subentrano manifestazioni psichico-fisiche incontrollabili, l’enuresi, il mutismo, i tremori e l’amnesia.
Che origini avevano i militari che venivano ricoverati a Girifalco?
Parliamo di un momento storico in cui la popolazione impegnata in agricoltura superava il 50% e i fanti dell’esercito italiano erano prevalentemente di estrazione contadina, con un elevato livello di analfabetismo. Molti di questi fanti, soprattutto nelle aree meridionali, erano abituati a vivere lontani dai centri abitati; non erano mai stati in una grande città, dove i segni del progresso cominciavano a essere evidenti, non avevano mai visto un centro industriale; vivevano ancora, sulle orme dei loro padri, secondo i ritmi della natura, governati dalle leggi del mondo rurale, con un immaginario e consuetudini rapportati alle vicissitudini di una vita agra e difficile nell’attesa di una modernità e di un progresso di cui sentivano solo gli echi lontani. Costoro, strappati dal loro universo sociale e mentale e improvvisamente scaraventati al fronte, impattano con l’altra faccia dello sviluppo e fanno i conti con una realtà per loro terrificante: conoscono la meccanica dei tiri d’obice, sentono l’odore dei gas letali e ne vedono gli effetti sui volti dei compagni soffocati, subiscono il trauma dell’artiglieria pesante che cannoneggia senza sosta mentre si sentono ingabbiati nelle trincee.
Una volta catapultati in prima linea, i soldati sono costretti a fare i conti con il trauma della violenza e del conflitto che li porta alla morte. Se vogliono evitarlo, sia pure inconsciamente, per salvare la pelle a qualsiasi costo, gli rimane solo la follia. E’ così?
A queste masse subalterne, scarti di una civiltà che non conoscevano e da cui erano esclusi, il fragore della Grande guerra dimostrò la micidiale ambivalenza dell’agognata modernità. Tutto ciò ha segnato uno spartiacque nel loro recinto mentale e ha inciso sul loro modo di concepire la vita e la morte, privandole di quella ritualità secolare alla quale erano abituati. Predestinati, impotenti di fronte a eventi straordinari che non capivano e non potevano governare, troveranno nella follia o nella sua simulazione, una via di fuga. Di fronte all’impossibilità pratica di una fuga reale si ricorre alle vie di fuga interiori, a quella forma di diserzione virtuale che è la malattia. La follia del soldato individuale e inconsapevole di diserzione, si manifesterà con forme di regressione di pensiero e di comportamento irrazionali, mitiche, magiche, che assumeranno rappresentazioni psichiatriche diverse quali la depressione, il “mutacismo”, il disorientamento.
Le patologie psichiatriche si sono manifestate in tutti i paesi belligeranti? Che dimensioni ha raggiunto il fenomeno?
Le nevrosi generate durante e a seguito della Prima Guerra Mondiale furono un fenomeno nuovo e presente in tutti i Paesi belligeranti, con una dimensione notevole se si considera che, secondo le stime della storiografia recente, i ricoveri per ragioni nervose e mentali durante il conflitto furono in Francia circa 300.000, in Germania circa 400.000; in Inghilterra le stime oscillano tra 80.000 e 200.000. In Italia i ricoverati, sulla base delle stime dei consulenti psichiatri dei corpi d’armata, furono 40.000, numero solo apparentemente limitato se si tiene conto dell’inferiorità numerica dell’esercito italiano. A luglio 1916 militari neuropatici erano 20.000 unità, e quando, dopo Caporetto, gli ospedali da campo a ridosso del fronte sono smantellati, si capisce che non sempre è possibile l’auspicato trattamento rapido ed efficace dei malati e si impone lo smistamento degli alienati in sezioni speciali dei manicomi civili del Regno.
Che posizioni ha assunto la psichiatria italiana di fronte al fenomeno dei soldati neuropatici?
La psichiatria italiana agiata sui «valori» e sulle esigenze dei comandi militari è giunta a conclusioni radicali, negando ciò che appariva evidente e, cioè, che il conflitto era uno straordinario agente patogenetico, ovvero a interpretazioni compromissorie volte a dimostrare che il trauma da guerra, che non poteva non essere riconosciuto, si sviluppava nella maggior parte dei casi «su un terreno già costituzionalmente predisposto».
Come si è organizzato il servizio sanitario militare per fare fronte a questo imprevisto?
Il servizio sanitario militare, allo scoppio del conflitto mondiale, si trovò impreparato di fronte alla portata e alla natura delle patologie ricollegabili ai traumi di guerra. Il gran numero dei traumatizzati psichici, che non potevano essere tutti considerati detriti da scartare, impose una riorganizzazione che si realizzò con la nomina di Augusto Tamburini a «generale medico assimilato» posto a capo del Servizio psichiatrico di guerra, e con l’assegnazione di quattro eminenti consulenti psichiatri alle quattro Armate (Arturo Morselli per la prima, Vincenzo Bianchi per la seconda, Angelo Alberti per la terza e Giacomo Pighini per la quarta). Venne istituito un Centro militare di prima raccolta a Reggio Emilia e vennero organizzati reparti sanitari a ridosso del fronte: i cosiddetti «villaggetti psichiatrici» ai quali era affidato il compito di smascherare i simulatori e di effettuare rapide diagnosi, terapie solerti con degenze brevi per rimandare subito al fronte i soldati guariti. Veniva in tal modo affidato alla psichiatria un ruolo disciplinare, in cui il giudizio clinico doveva essere necessariamente sommario di fronte a patologie sostanzialmente considerate «sindromi transitorie».
Come si è trasformato l’ospedale psichiatrico di Girifalco, già attivo in Calabria da fine ‘800, quando la sua direzione ha dovuto provvedere all’istituzione di un nuovo reparto dove accogliere i militari? Si è trattato di un numero di nuovi pazienti significativo?
L’istituzione a Girifalco del Reparto psichiatrico per i militari, a seguito della convenzione stipulata con il ministero della Guerra, ha trasformato sensibilmente l’organizzazione del manicomio, la tipologia dei ricoverati e le prassi diagnostiche e terapeutiche. Già dopo pochi mesi dall’entrata in guerra dell’Italia il numero delle ammissioni cresce progressivamente con l’arrivo dei militari provenienti dal fronte, dai villaggi psichiatrici in zone di guerra o da altri manicomi e prosegue dopo l’armistizio fino al 1922, anche per effetto della chiusura del Reparto per militari del manicomio di Bari. Durante il periodo bellico, dal 1915 fino al novembre 1918 la struttura di Girifalco ha accolto 498 militari; dopo l’armistizio e fino al 1922 i militari complessivamente ricoverati nel manicomio sono 623, dei quali l’82,1% è proveniente dal Mezzogiorno.
Che tipo di indicazioni ha ricevuto la direzione di Grifalco dalle autorità militari?
Seguendo le sollecitazioni dei vertici della psichiatria militare, il manicomio di Girifalco assolve senza tentennamenti il compito di restituire all’esercito in tempi brevi, durante il confitto, i soldati che accusano traumi psichici: si accelerano i tempi di ricovero, che vanno mediamente da poche settimane a qualche mese di degenza, aumentano sensibilmente le percentuali di guarigioni, vere o presunte (come dimostrano i tanti casi di ritorno in manicomio dopo una precedente dimissione), pochi sono i casi di lungodegenze. E tutto ciò malgrado il fatto, messo in evidenza dal direttore Frisco nella relazione annuale del 1918, che metà degli infermieri era stato richiamato alle armi e non era stato sostituito e che per circa tre anni l’unico medico del manicomio era lo stesso direttore, alle prese con centinaia di militari da esaminare, seguire e curare: si può immaginare con quale approfondimento e accuratezza l’unico psichiatra in servizio abbia potuto seguire centinaia di soldati.
Quali ulteriori dati sono scaturiti dall'esame delle cartelle cliniche elaborate dai medici di Grifalco?
Se le cartelle del 1915 e in parte quelle del 1916 sono in qualche modo dettagliate nella descrizione della sintomatologia e delle probabili cause del trauma psichico, con il passare del tempo diventano sempre più sin- tetiche e prive di dati che pur dovrebbero essere indispensabili. Non vi è traccia delle analisi e dei test di laboratorio che in precedenza venivano inviati dagli ospedali militari o dai manicomi da cui proviene il soldato; il diario clinico è assente; non vi è alcuna indicazione della terapia adottata e tutto lascia supporre che per la maggior parte dei militari giunti a Girifalco la cura consistesse nell’osservazione e nel riposo in un luogo lontano dal fronte.
Quale protocollo veniva osservato dai medici di Grifalco nell'ospedalizzazione dei soldati provenienti dal fronte?
Il primo atto di indagine consisteva nell’accertare se il soldato simulasse la malattia per evitare il ritorno al fronte; a volte tale riscontro era agevole e facilitato dalla condotta palesemente innaturale del militare, altre volte la ricerca della simulazione risentiva del pregiudizio diffuso che il soldato ricorre a ogni mezzo per sfuggire alla guerra, come dimostrano i tanti casi che gli stessi medici considerano dubbi. Nei casi in cui il trauma da guerra era inconfutabile, i medici, dopo aver verificato la sintomatologia e appreso le cause prossime che lo avevano determinato, ossia l’evento bellico scatenante, bombardamenti, ferite, esplosioni ecc., non mostrano particolare interesse verso le condizioni di vita del soggetto prima della chiamata alle armi, del suo stato di salute, del suo lavoro, dei suoi interessi, dell’ambiente in cui viveva, del suo livello culturale; non si chiedono fino a che punto la modernità devastante degli strumenti bellici incontrata al fronte abbia potuto incidere sulla psiche di alcuni soldati di estrazione rurale abituati a vivere in zone isolate, mai a contatto con le tecnologie moderne, in un clima culturale arcaico legato ai ritmi e ai riti del mondo agricolo primitivo.
E’ vero che i medici di Girifalco erano convinti che i traumi psichici da evento bellico si instaurassero in soggetti geneticamente predisposti?
Conformemente all’opinione diffusa nella psichiatria italiana sull’origine organica della malattia mentale e ritenendo che anche i traumi psichici da evento bellico si instaurassero in soggetti geneticamente o individualmente predisposti, anche gli psichiatri di Girifalco avevano come primo approccio l’obiettivo di accertare se nella famiglia del soldato vi fossero stati casi di malattia mentale o comunque situazioni morbose o abitudinarie, tipo sifilide, alcolismo ecc., tali da far ritenere una preesistente predisposizione al trauma psichico. Accertata, anche con sforzi e qualche dose di fantasia, una predisposizione ereditaria o individuale alla malattia mentale, fatta coincidere la realtà con le teorie dominanti, il medico ritiene di aver assolto il suo compito; sarà sufficiente una terapia di osservazione e di riposo a letto e qualche bagno caldo per ritemprare molti dei militari traumatizzati ancora recuperabili alla causa bellica; per gli altri, gli irrecuperabili in quanto gravemente ammalati, il ricovero in manicomio sarà stato utile a dimostrare che la guerra era stata l’occasione in cui si era definitivamente manifestata una malattia psichica latente.
Quali ulteriori spunti di riflessione aggiunge l’accesso alle cartelle cliniche dei soldati della Grande guerra internati nel manicomio di Girifalco?
In primo luogo mettono in risalto gli effetti dell’irruzione della macro-storia su un’istituzione periferica, tali da intaccarne le stantie categorie culturali attraverso cui, fino a quel momento, si «leggeva» il disagio psichico di una realtà sociale ed economica premoderna, legata a riti e tradizioni altrove sconosciuti. Il medico affronta la malattia mentale del militare proveniente dalle zone di guerra e la analizza non più in relazione alla sua vita e all’ambiente sociale, familiare e culturale di provenienza, ma la rapporta al momento storico del Paese e alle specifiche situazioni (eventi bellici, bombardamenti, ferite, vita di trincea ecc.) che appaiono le cause prossime del disagio mentale. Inoltre la cartella clinica si forma sulla base dei certificati e delle relazioni mediche dell’ospedale militare che invia al manicomio il soldato che denuncia il trauma psichico; è quindi un contenitore al cui interno si trova un’ipotesi di diagnosi formulata in base a documenti, dati e notizie provenienti da fonti diverse che lo psichiatra del manicomio acquisisce come dati certi e analizza e rivaluta sulla base della sua personale esperienza. A Girifalco il primo compito dello psichiatra è la verifica delle reali condizioni del soldato per accertare i casi in cui lo stesso possa essere subito restituito all’esercito impegnato nel conflitto (dopo l’armistizio, comprensibilmente, le simulazioni calano drasticamente e nell’82,7% dei casi viene riscontrata un’effettiva psicosi o nevrosi. In questa ottica il sospetto che dietro il trauma apparente si celasse una simulazione per evitare il ritorno al fronte è sempre presente nel momento dell’anamnesi e della diagnosi. Inoltre la questione viene affrontata in un contesto culturale segnato dalle opinioni di eminenti psichiatri militari che ritenevano che «la simulazione così come la diserzione» fossero «inequivocabili segni di debolezza mentale», riconoscibili spesso anche dalle «asimmetrie craniche», nonché «manifestazioni di degenerazione e criminalità innate»
Nel caso dei militari cosiddetti “simulatori”, a quali espedienti fanno ricorso per convincere i medici a tenerli lontani dal fronte attraverso il ricovero in manicomio?
A guerra intrapresa i casi di simulazione di soldati provenienti dal fronte aumentano: alcuni sono di agevole accertamento per le plateali, ingenue o furbesche manifestazioni poste in essere da soggetti non esperti nell’arte di «fare i matti». Col passare del tempo si affinano le capacità di simulazione di coloro che cercano una via di fuga da quella che ritengono una morte certa. I soldati imparano a ricostruire la propria anamnesi individuale e familiare, emulano i modelli patologici reali, ripropongono una sorta di copione che contiene alcune sintomatologie tipiche, i mal di testa, il mutismo, la tendenza all’isolamento. Consapevoli della radicata propensione della psichiatria per l’ereditarietà e la predisposizione, inventano tare ereditarie inesistenti. Insomma, imparano davvero a fare i matti e ciò rende più arduo il compito di svelatore del medico, soprattutto nei casi in cui obiettivamente possono nutrirsi dei dubbi.
E’ possibile elencare alcuni estratti biografici di soldati “simulatori” ricoverati a Girifalco?
Alfonso M. nato a San Valentino (SA), il quale, nel reggimento nel quale è arruolato, evidenzia epilessia, mutismo, contrazioni degli arti inferiori, perdita di urine e feci e, sporadicamente, rifiuta di alimentarsi. Ammesso in manicomio il 17 maggio del 1915, dopo breve osservazione, riceve uno schematico e netto giudizio medico nel quale si sostiene che il M. «simuli l’epilessia per evitare complicazioni derivanti dal suo essere un soldato, soprattutto in un momento storico delicato come questo». Viene dimesso poche settimane dopo l’ingresso, nel giugno dello stesso anno, per non «constatata pazzia». Altrettanto evidente è la simulazione di Mauro G. un calzolaio di Paternò arruolato nel 48º reggimento di fanteria, che mentre si trovava presso il campo di addestramento militare mostrava segni di disturbo mentale. In particolare, appresa la notizia di una sua imminente partenza per il fronte carsico si imbrattava la faccia con le proprie feci e si chiudeva in un ostinato mutismo. Ricoverato presso l’ospedale militare di Catanzaro si rendeva protagonista di manifestazioni violente e impulsive accompagnate da visioni terrificanti e allucinazioni. Arriva a Girifalco il 17 dicembre 1916 e vi resta pochi giorni, nei quali si dimostra tranquillo e ordinato e, anzi, temendo che possa essere scoperta la sua simulazione, sobilla gli altri internati al fine di organizzare all’interno dell’istituto una manifestazione di protesta contro il direttore Frisco per ottenere un allentamento della vigilanza su di lui. Allegata alla cartella clinica vi è una lettera dei carabinieri di Paternò del 5 gennaio 1917 che avvertono trattasi di un simulatore. È dimesso il 12 gennaio 1917 per non constatata pazzia. Sceglie con cura gli argomenti che dovrebbero comprovare il disturbo mentale un contadino ventitreenne di Sersale, Pasquale G., internato nel febbraio del 1918. In sede di anamnesi finge delle amnesie e non sa dire se sia stato in zona di guerra; dichiara di soffrire di cefalea, blenorragia e ulcera e soprattutto fa sapere che la madre è matta. I medici accertano che il militare ha la sifilide, ma non constatano alcun segno di disagio psichico e chiedono informazioni ai carabinieri sulla situazione familiare. A supporto delle affermazioni del soldato giunge una lettera del padre, il quale, senza far cenno a una malattia mentale della moglie, conferma che Pasquale ha avuto in passato disturbi mentali, ma contiene un’invocazione di clemenza al direttore che potrebbe essere interpretato come una velata richiesta di complicità “Caro signor Direttore ò ricevuto dallo municipio la notizia giorno 8 corrente dello vostro telegramma che avete spedito che mio figlio G. Pasquale per Causa di pazzia hanno portato Costà è si trova In vostra Custodia vi prego di ci avere un poco di Carità è Cremenza perché di questa malattia di à sofferto di più di prima che gli ha vacillato Il cervello che posso dirvi quanto mancanze à fatto mà lo dovuto perdonare perché gli sono patre cosi vi prego a voi Signor Direttore di ci avere un poco di carità come un buon patre di famiglia vi prego di essere tanto gentile di rispondermi è farmi sapere come passa mio figlio che lo appresso verrò à trovarlo che ora mi trovo ammalato è non sono in condizione di viaggiare con stima vi saluto e sono vostro amico e servo Ignazio G. fu pasquale.” Nel frattempo arriva la risposta dei carabinieri: non è vero che la madre sia un soggetto neuropatico eccitabile» e che Pasquale non ha mai sofferto di cefalea e aggiungono che il giovane «è stato sempre avverso all’adempimento degli obblighi militari» e che «dal luglio 1916 al dicembre 1917 rimase lontano dalle file dell’esercito mantenendosi disertore». Alla fine di aprile del 1918 Pasquale verrà dimesso per non constatata pazzia. Soprattutto durante la fase caotica dell’accavallarsi dei ricoveri, nel 1917 e in particolare dopo Caporetto, le notizie richieste ai carabinieri del comune di origine del militare diventano decisive per la formulazione della diagnosi e per lo smascheramento della simulazione. Il barese Pasquale P. di 32 anni, internato nel novembre 1917, afferma di «aver dimenticato di saper leggere e scrivere» dopo essere stato colpito da una scheggia sul Faidi (probabilmente si riferiva al Dosso Faiti sul Carso) e aggiunge che sua madre «in paese è chiamata Teresina la pazza». I carabinieri, interpellati, smentiscono tale circostanza e il militare è dimesso nel giro di un mese per non constatata pazzia. Un singolare caso di accertata simulazione, malgrado l’anamnesi familiare e personale secondo i canoni dell’epoca avrebbero dovuto indirizzare per l’esistenza del disagio mentale, è quello di Antonio P., un contadino appena diciottenne di Aci San Antonio di Catania, arrivato a Girifalco il 18 agosto del 1916. Dalla cartella clinica si apprende che il giovane, durante l’addestramento nel suo corpo d’armata, prima di essere mandato in zona di guerra, si allontanava. Giunto in campagna si svestiva completamente degli abiti militari e, rimasto in mutande, s’incamminava per una strada. Alla vista di un carretto cercava di salire a bordo ma, visto il diniego del cocchiere, lo aggrediva dando vita a una colluttazione. Ripreso, viene spedito in manicomio. Dalle prime verifiche sembra un ereditario morboso: sia il padre che il fratello si trovano in una casa di cura in provincia di Palermo per problemi psichici. I medici di Girifalco appurano anche che il P. è stato malato di sifilide, ma giudicano le sue stranezze come il frutto di una simulazione, avendo constatato che, giunto in manicomio, si era dimostrato tranquillo e perfettamente cosciente. Il militare insiste con i medici nel far notare l’ereditarietà familiare e li sprona a comunicare all’ospedale militare di Catanzaro questo dato, sperando di ottenere il congedo illimitato. Ma ciò, a parere dei medici, dimostra solo la volontà del paziente di «speculare» sui parenti malati. Il P. chiede di essere ammesso a lavorare, ma non gli è concesso perché sorpreso a confidare ad altri pazienti il suo intento di scappare dalla struttura, considerata ormai lampante la simulazione. Nel periodo di osservazione è curato con l’isolamento, la persuasione e le cure mercuriali per la sifilide. Finché le sue condizioni sono considerate floridissime e il 15 ottobre del 1916 viene dimesso per non constatata pazzia.
Ci sono dei casi in cui era obiettivamente arduo individuare il confine tra disagio mentale, intolleranza alla vita militare e simulazione?
Interessante è il caso di Vincenzo D. S., un giovane ventiquattrenne di Vibonata (SA), con istruzione elementare, soldato del 48º reggimento fanteria, che ha avuto ben quattro ricoveri in manicomio. È un classico caso di «fuga dalla guerra» con tutti i mezzi necessari. Durante il servizio militare presso il corpo di addestramento, e in attesa di partire per il fronte, fu affetto da febbre malarica e, per questi motivi, ricoverato presso l’ospedale militare di Catanzaro. Durante la degenza si mostrava persona molto eccitabile, impulsiva e violenta, tanto che in due occasioni aveva mandato in frantumi i vetri della camerata. Mentre si avvicinava il giorno del suo rientro al corpo, si allontanava dall’ospedale disertando. Arrestato e condotto in un primo momento nelle carceri di Monteleone, veniva poi internato a Girifalco il 10 dicembre 1916. L’équipe medica accerta che il soldato è affetto da sifilide e questo, a giudizio del prof. Frisco, spiega la gracilità del fisico. Poca attendibilità viene attribuita alle intemperanze emotive che avevano caratterizzato il suo ricovero in ospedale militare e, benché il soldato cerchi di spiegare con insistenza che durante la degenza sia stato preso da disturbi psicomotori e scatti di immotivata ira, il corpo medico avanza l’ipotesi della simulazione. Dopo la cura a base di mercurio, per la sifilide, il soldato appare più ordinato e tranquillo e, pertanto, dimesso per non constatata pazzia. Nella relazione medica di questo primo ricovero si legge che le intemperanze del D. S. sono attribuibili alla sua pessima condotta e non a un vero e proprio disturbo. Dagli atti risulta evidente come il procedimento a carico del soldato per diserzione abbia influenzato il giudizio dei medici, che tendono a sminuire la portata del disagio psicologico dando risalto alle vicende relative alla diserzione e alle relazioni degli ufficiali del corpo che lo descrivono come un pessimo soldato. Durante il primo ricovero gli veniva concessa una licenza di sei mesi che trascorreva a Vibonata. In questo periodo fu arrestato per furto. Mentre i carabinieri lo conducevano in carcere si ribellava improvvisamente con attacchi violenti verso i militi e, quindi, veniva nuovamente denunciato per insubordinazione. Dalle carceri del corpo d’armata evadeva nel marzo del 1917. Riacciuffato e ricondotto in carcere, poco tempo dopo, il 29 marzo, riusciva nuovamente a evade- re ma era prontamente ripreso dai carabinieri e tradotto in carcere a Bari. Durante la carcerazione mostrava sempre segni di alienazione mentale associati ad attacchi d’ira e violenza furiosi. Nel mese di aprile colpiva un altro detenuto in preda a uno stato allucinatorio e fu difficile, si legge dalla relazione dei carabinieri, tenerlo a bada. Per i diversi reati accumulati il D. S. fu condannato a cinque anni di reclusione da scontare a guerra finita. Durante la permanenza in carcere a Monteleone, prima della condanna, manifestava sintomi di alienazione mentale, ripetendo per ore e ore «guerra, guerra agli austriaci, morte a tutti, viva l’Italia» L’agente di custodia che accompagna la seconda volta il militare a Girifalco consegna al direttore del manicomio la relazione del reparto di custodia del carcere militare nella quale si sospetta la simulazione. Anche questa opinione influenza gli psichiatri di Girifalco: negli atti relativi al secondo ricovero non è mai indicata una patologia o manifestazioni di alienazione mentale, mentre si fa sempre riferimento alla condotta del D. S. e al suo status di «avanzo di galera». Ancora una volta è dimesso per non constatata pazzia. Spedito al fronte nella zona di guerra presso Aidussina (oggi Slovenia) manifestava gli stessi problemi di sempre, connessi a tentativi di fuga. Da un telegramma del comandante di reggimento proveniente da «zona di armistizio» si apprende che il D. S., persistente nel mantenere idee deliranti, aveva tentato nuovamente la fuga, ma questa volta a guerra conclusa, era infatti il 18 luglio 1919. Rientra di nuovo a Girifalco. Anche durante questo ricovero tenta di evadere e per questo viene denunciato. Ancora una volta sarà dimesso per non constatata pazzia. La condotta ripetutamente insofferente alla disciplina e alla vita militare e le continue manifestazioni di disturbi mentali, proseguiti anche dopo l’armistizio, lascia più di un dubbio sulla volontà simulatoria del soldato che sembrerebbe piuttosto un soggetto patologicamente intollerante e refrattario alla vita militare. Singolare è la vicenda di Michelangelo M., un meccanico analfabeta calabrese ammesso una prima volta in manicomio il 6 maggio 1916 con la diagnosi di frenosi maniaco-depressiva, stati di angoscia e malinconia ed eccessiva irritabilità. Proviene da una zona di guerra del basso Isonzo e, dopo una breve permanenza, i medici ritengono che i suoi racconti siano confusi e incerti e non consentono il formarsi di un’idea certa circa le sue patologie. Dopo un mese, con l’attenuarsi dei sintomi si ritiene inutile la degenza all’interno della struttura e il soldato è dimesso e mandato in licenza nel suo paese d’origine. Ma il sospetto che il soldato simuli la malattia mentale permane anche dopo le dimissioni, essendo i medici convinti che i disagi legati alla vita di trincea non siano di per sé causa sufficiente per l’instaurarsi di una malattia mentale. Nella documentazione allegata alla cartella clinica si trova una lettera del direttore del manicomio dottor Frisco alla compagnia dei carabinieri del paese del soldato con la quale si chiede se durante la licenza questi abbia manifestato disturbi di mente. I carabinieri rispondono che, pur avendo mantenuto una buona condotta, il soldato è senza dubbio «malato di mente». Il M. dopo meno di due anni è nuovamente ricoverato con la medesima diagnosi e anche in questa occasione i sanitari dubitano della veridicità del disturbo mentale. Nel corposo fascicolo, che so- miglia più a un’accurata indagine di polizia che a una descrizione patologica con le relative cure, si trova una toccante lettera della sorella del soldato del febbraio 1918 e indirizzata al direttore in cui si chiedono lumi sulle condizioni di salute del fratello e, a prova della sua reale instabilità mentale, il racconto della vita difficile del giovane costretto a vivere senza genitori, «morti bruciati» a seguito di un incendio della piccola casa di campagna di loro proprietà.
Sono stati archiviati dei casi in cui le simulazioni non sono affiorate, consentendo ai militari di raggiungere l’obiettivo di evitare la guerra?
Si e lo dimostra la storia di un militare calabrese che è riuscito a ingannare gli psichiatri di tre manicomi e i medici di un ospedale militare. Domenico A., un ventisettenne spaccalegna di Badolato, appena chiamato alle armi mostra sintomi di disturbi mentali e viene ricoverato nell’ospedale militare di Palmanova, ove viene riscontrata una malattia mentale; il soldato è inviato al manicomio di Reggio Emilia e, poco dopo, trasferito a quello di Siena. Viene, infine, inviato «per competenza territoriale» al manicomio di Girifalco, ove entra il 19 settembre 1917 con una diagnosi di psicosi epilettica. I medici calabresi confermano la diagnosi di epilessia, ma non notano comportamenti rilevanti sul piano del disagio mentale e interrogano più volte il giovane soldato per capire se lo stesso sia veramente malato di mente. Solo nell’aprile del 1918, si legge nella cartella clinica, dopo aver ottenuto a febbraio il foglio di riforma, Domenico ammette candidamente ai sanitari che «non è mai stato epilettico e che i disturbi furono sempre simulati per sottrarsi al servizio militare». Viene quindi dimesso il 17 maggio.